sabato 8 settembre 2012

Solo... nel mio corpo immobile - Alone... in my motionless body


Aprii gli occhi... ero ancora lì: la stanza bianca del reparto, il bagno, la sedia, il tavolo... Oggetti che potevo scorgere, ma che non “frequentavo” da diverse settimane inchiodato com’ero al letto...

La mia brutta polmonite era stata finalmente domata con ore quotidiane di C-PAP, una macchina che attraverso una maschera calcata sul viso spinge aria nei polmoni e ti obbliga a soffiare forte per svuotarli...

Girai lo sguardo a sinistra, verso le finestre. I disegni delle mie figlie, attaccati ai vetri, davano un po’ di colore alla stanza e mi spronavano a non mollare.
Più oltre, la giornata invernale. Era febbraio e il cielo era grigio ma era possibile che il tempo migliorasse.

Riportai l’attenzione sulla parete frontale. La telecamera di sorveglianza mi controllava con il suo occhio rotondo e nero e, accanto, il crocifisso di legno...

Sentii uno sbadiglio giungermi alla bocca, ma non riuscii ad aprirla...
Sbadigliai come si fa a teatro per non farsi notare...
Cercai di girare la testa... nessun movimento!

Il cuore prese a galoppare. Cominciai a farmi domande: “E’ questo il coma? Sono paralizzato? Resterò sempre così?”

Provai a muovere una mano. Solo le dita accennavano minuscoli tremori. Non provavo alcun dolore. Ero solo... nel mio corpo immobile!

Più tardi entrò l’infermiera per i controlli: “Ehilà, come andiamo oggi?”
Con uno sforzo enorme riuscii a socchiudere la bocca, ma non uscì una parola. Chiusi gli occhi con rassegnazione e sentii una lacrima solcarmi una guancia.
L’infermiera capì e mi rassicurò dicendo che era tutto normale e che presto sarei stato meglio.

Non riuscivo a credere di essere ancora in quelle condizioni dopo tutto quello che avevo già passato...

Vennero a trovarmi i miei genitori, come tutti gli altri giorni.
Provai a tranquillizzare mia madre dicendole di non preoccuparsi... mi uscì un “...n...”.
La vidi sforzarsi di tenere un contegno mentre la disperazione prendeva il sopravvento.
Mi chiese se volevo restare solo. Lentamente abbassai le palpebre... “Sì”...

Trascorsi così, come un tronco abbattuto, diverse ore di quella folle giornata; tornando più volte con lo sguardo su quel cielo immobile, sui disegni muti, la telecamera... e ancora sul crocifisso.  Pregavo... imploravo che accadesse qualcosa...

...entrò il Professore responsabile del reparto...

Dopo una breve visita, con la sua voce ferma mi disse: “Le cure che sta facendo sono molto pesanti... la malattia è grave. La medicina può fare molto ma non tutto. Il resto ce lo deve mettere lei. Prenda un obiettivo possibile e si sforzi di raggiungerlo. Anche solo... arrivare a sera... e poi a domani...”

Io ero a secco: anche scavando dentro, nel più profondo, non sapevo più dove trovare le forze per reagire.

Quando il professore se ne andò entrò mia moglie. Avvicinò la sedia e si sedette.
Senza dire una parola mi prese una mano, la strinse forte e i suoi occhi, dietro la mascherina, sorrisero.

Sentivo una grande calma spandersi dentro e nuove forze passare dalla sua mano alla mia...

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