mercoledì 12 novembre 2014

24 novembre - November 24


Mi reggevo in piedi a fatica. Mia moglie mi affiancava e parlava con l’infermiere all’accettazione del Pronto Soccorso.
Lui prese un modulo in bianco e iniziò a scrivere i miei dati: nome, cognome, data di nascita…

Terminate le pratiche di ingresso mi fu assegnato il codice verde e mi fecero varcare la soglia del reparto.
Mi misero disteso dicendomi di aspettare e prima di lasciarmi solo, tirarono una tenda intorno al perimetro della mia barella.

Fu un’attesa lunga. Dapprincipio ero attento alle voci che mi circondavano. Era un andirivieni continuo. Le voci non erano tante, potevo seguire i discorsi. Parlavano dei turni di servizio di fine anno. Era il 24 di novembre, presto sarebbe stato Natale.

A poco a poco gli occhi si chiusero e mi addormentai...

Mi sentii scuotere una spalla e la luce del soffitto mi abbagliò.

“Deve fare una radiografia al torace.” disse un infermiere con un leggero accento del sud.
Era quello che si lamentava perché gli era capitato il turno peggiore.

“Non so se mi reggo in piedi” risposi.
“Ecco guardi, le dò una sedia a rotelle.” rispose l’infermiere accostando al letto una vecchia carrozzella con le imbottiture di plastica.
Mi aiutò a trasferirmici sopra e prese a spingere con passo veloce.

Percorremmo alcuni corridoi, tutti vuoti, fino a quando raggiungemmo l’ambulatorio di Radiologia.
Mi piazzò su un lato, davanti alla porta chiusa, mi disse di attendere e salutando col palmo della mano se ne andò.

In quel corridoio deserto, sentivo solo il ronzio delle luci al neon…
Le linee regolari sul pavimento inducevano la vista a percorrere tutta la prospettiva fino al punto più distante.
E sui muri, a mezza altezza, si estendevano le protezioni paracolpi per le barelle.

Non ero affaticato, ma avevo il fiato corto… stranamente...
Corto. Sempre. Più. Corto…

Cercai di alzare gli occhi al soffitto perché sembrava che la luce stesse affievolendosi.
Una coltre scura calò dall’alto e una miriade di stelle brillanti presero a danzarmi negli occhi.

Capii subito che stavo per svenire.

Sapevo che la posizione seduta non fosse la migliore per evitare uno svenimento: era molto importante tenere la testa in basso, restare distesi, meglio ancora con le gambe sollevate. Ma ebbi paura di buttarmi sul pavimento. Paura di sbattere la testa o di rompermi qualcosa cadendo.

Sollevai i piedi e appoggiai i talloni sulla protezione per le barelle. Ero seduto a un livello più basso quindi le gambe andavano effettivamente verso l'alto. Sperai che potesse bastare. Poi cercai per quanto mi fosse possibile di reclinare la testa all'indietro e di abbassare il tronco.

Provai con una mano a tirare il freno della carrozzella che tendeva ad indietreggiare, ma nella concitazione non mi riuscì di trovare la leva. Così afferrai i cerchi di metallo delle ruote e serrai forte le mani per bloccare la carrozzella.

Rimasi così, immobile, per alcuni lunghi istanti, con i denti stretti per lo sforzo...

Poi quel velo oscuro lentamente si sollevò e tornai a mettere a fuoco le immagini davanti a me.
Anche il viso di quel medico che aveva aperto la porta e dalla soglia, con un’espressione stupita per avermi trovato in quella strana posizione, mi fece: “Prego entri, tocca a lei…”

Mai parole furono più profetiche.
Toccò senz'altro a me.

La radiografia evidenziò un grosso focolaio nel polmone sinistro.
Avevo una grave polmonite.

Una dottoressa mi fece un prelievo di sangue arterioso dal polso: l'emogasanalisi.
Fu piuttosto doloroso: l'ago non trovava l'arteria e la dottoressa fece diverse manovre per "cercarla".

Quel gesto di scavarmi dentro e prelevare qualcosa, da allora va ripetendosi, solo in forme diverse...

E l'esito di quell'esame del sangue fu ben più serio della seppur grave polmonite.
Il mio sistema immunitario era totalmente fuori controllo.

Avevo sì una grave infezione ai polmoni, ma soprattutto avevo la leucemia!

Chiamarono mia moglie: “La situazione è disperata. Non sappiamo se ce la farà...”

A volo d’aquila, ecco cosa successe poi...

La polmonite guarì grazie a tanti antibiotici e molti giorni di “ginnastica polmonare” con una macchina odiosa.
Poi passai alla malattia più spaventosa. Feci alcuni cicli di chemioterapia in preparazione del trapianto, e qualche giorno prima dell'evento affrontai la radioterapia.

Poi mio fratello con un gesto altissimo mi donò il suo midollo salvandomi la vita.

Da allora, per mia grande fortuna, la malattia non si ripresentò più.

Ma qualcosa era successo. Le terapie hanno sempre degli effetti collaterali.
Nel mio caso mi provocarono due osteonecrosi che letteralmente “grattugiarono" la testa del femore di entrambe le anche.

Il secondo anno dopo il trapianto iniziai a camminare con le stampelle.
I chirurghi ortopedici mi dissero subito che non c’era alternativa per me: avrei dovuto operarmi di protesi d’anca bilaterale.

Non mi arresi all’idea e tentai tutto l’umanamente possibile: agopuntura, camera iperbarica, magnetoterapia, idrochinesi, manipolazioni, osteopatia... Dopo un anno e mezzo qualcosa migliorò ma non fu sufficiente.

Ora mi accingo a farmi operare. E proprio nei giorni intorno al 24 novembre, quel fatidico anniversario, quattro anni dopo, ancora una volta mi scaveranno dentro per togliere qualcosa che ha smesso di funzionare...

Lo so, non ho il diritto di pretendere che la mia esperienza di paziente finisca qui e che mi sia garantita la serenità per il resto della vita.
Ma non tollererò più l’idea di dover affrontare con disinvoltura nuove prove in nome del fatto che sono stato forte una volta superando di peggio.

Se non potrò evitarlo, lo farò. Perché va fatto.


All’uscita dal tunnel che temeva non avrebbe più lasciato, il viandante proseguì per la strada aperta.
E la natura, che in quel tratto lo sferzò con il vento e la pioggia, gli parve bella e clemente nonostante tutto.




giovedì 17 luglio 2014

Ce la faccio! - I can do it!


Trascinavo le mie gambe stanche lungo il corridoio. Su e giù. La mano destra chiusa intorno all'asta con le sacche e le bottiglie per le infusioni. Quell'asta con le ruote, compagna inseparabile di mille giri di boa da una vetrata all'altra fra Ematologia e Oncologia.

E osservavo i parenti che entravano pensando ai loro cari. Avevano il passo veloce, loro, e venendomi incontro trafelati mi davano una rapida occhiata. La mascherina, le mie gambe, le braccia magre, l'asta con le sacche appese e la pompa per l'infusione che funzionava a batteria.

Mi giravano intorno badando di non farmi inciampare e proseguivano oltre sui binari dei loro pensieri.

Li vedevo sedersi con un gesto discreto e svelto, in punta alla sedia dell'ingresso. E là infilavano i calzari sulle scarpe e mettevano la mascherina non senza qualche difficoltà.

Una dose o due di disinfettante sulle mani e poi subito in piedi con l'andatura goffa per i calzari scivolosi, in direzione della camera di ricovero.

Tre colpi leggeri con le nocche sulla porta, un sorriso di circostanza e venivano risucchiati oltre la soglia lasciandomi solo con i miei brevi passi incerti in mezzo al corridoio.

E mentre l'orologio sul muro scandiva i secondi io ripetevo un altro passaggio a tornare, prima che la pompa suonasse per la batteria scarica.

Mi mancava la libertà. Volevo uscire di lì, ma soprattutto volevo tornare a poter decidere cosa fare: andare a lavorare, fare la coda nel traffico, ricevere telefonate di amici, scherzare...

Avevo voglia di ridere, come si ride quando la vita è una cosa scontata e non pensi sempre che potrebbe sfuggirti di mano come un pugno di sale.

Ricordo bene quella sensazione.
Un'attesa prolungata e sospesa.
Come trovarsi sotto al semaforo aspettando la luce verde che non arriva...

Se ci penso ora sorrido, ma quei mesi mi segnarono profondamente.

Quando al rientro dai miei giri mi accostavo al letto e con un ultimo sforzo riattaccavo la spina della ricarica della pompa per interrompere il suo bip bip insistente, poi appoggiavo la testa al cuscino e chiudendo gli occhi ripetevo a me stesso: "Ce la faccio! Ce la faccio!"

Ecco, quelle parole che mi accompagnavano fin dentro ai miei sogni lo fanno tuttora. E mi ricordano che si può superare qualsiasi ostacolo, purché si sia disposti a pazientare e a lottare quando è necessario.

Non smetterò mai di essere quella figura esile e barcollante nel corridoio dell'ospedale, nemmeno ora che ho ripreso la mia vita.

Ora come allora so che la vita può riservarmi prove difficili.
Ma ora, come allora, lo so: ce la faccio!




sabato 17 maggio 2014

Il terzo anno - The third year


E così oggi è il mio terzo anniversario.

Tre anni fa un ottimo infermiere appendeva un carico di salvezza a un trespolo d'ospedale, accanto a molte altre sacche a testa in giù, mentre io lo osservavo con gli occhi pieni di speranza.

Dentro a quel fagotto rosso sangue c’era una quantità notevole di amore e spirito di sacrificio. Il midollo di mio fratello.

Tre anni fa la mia leucemia veniva lavata via con il fluido più nobile che ci scorre in corpo e qualche colpo di spugna fatta di chemio e radio terapie.

Da allora questa malattia tremenda, per mia grande fortuna, non si è più ripresentata, ma di cose ne sono successe parecchie.

Ho cambiato prospettiva sulla mia vita, confortato anche dalle parole di coloro che hanno avuto la stessa reazione prima di me.

Ho potuto incontrare persone della cui amicizia vado particolarmente fiero e a cui rivolgo spesso un profondo pensiero di gratitudine.

Ho anche dovuto imparare a gestire la stupidità di quelli che fraintendono il racconto di un sopravvissuto e lo prendono per un vanto da esibizione piuttosto che un modo per dire a se stessi ed altri in questa folle situazione: ce l’ho fatta, ce la puoi fare.

E ho realizzato con amarezza che taluni non sono nemmeno in grado di capire fino a che punto una vita può essere sconvolta, così, da un giorno all’altro. Ieri sano, oggi spacciato, domani… forse domani non c’è!

Che questi dal "giudizio in canna" vanno semplicemente scansati. Vivono in una bolla di beata ignoranza e sarà meglio per loro se potranno continuare la loro bella esistenza non sapendo nulla di tutto questo.

Ho perso conoscenti e amici carissimi a causa di malattie gravi come la mia. Li ho visti accettare e affrontare il proprio destino con una dignità che non si riesce a descrivere, e ancora adesso mentre ci penso ho un nodo in gola che non mi fa respirare.

Ho imparato che scampare una volta al rischio di morte può non essere sufficiente: la recidiva è un rischio concreto. E che la notte diventa molto lunga se ti metti a pensare a queste cose.

E poi ho sbattuto il muso contro il fatto che ogni farmaco, ogni terapia, oltre agli effetti voluti, ne provoca sempre anche altri indesiderati. Nella mia precedente vita di “sano inconsapevole” raramente andavo oltre a un bruciore di stomaco o un senso di spossatezza. Le terapie cui mi riferisco possono innescare violente reazioni della pelle, disfunzioni al sistema circolatorio, inibire o alterare gusto, olfatto e udito…
E squassarti le ossa. Io pago il mio tributo con le mie anche, una delle quali da un anno a questa parte è piuttosto compromessa.

E quindi ho preso contatto con una nuova condizione, quella dello “stampellato”. Ho notato quanto questi bastoni colorati possano spaventare le persone e incuriosire i bambini… (e quante volte appoggi le stampelle e loro immancabilmente crollano a terra).

Ho conosciuto una folla di persone che, per le ragioni più varie, alle 7.30 del mattino sono già in acqua a fare fisioterapia.

Ho affrontato il cinismo di certi ortopedici che ti compatiscono per gli sforzi che fai e concludono dicendo che tanto prima o poi passerai sotto il loro bisturi.

E ho capito che spesso un’altra via c’è! Ma devi andartela a cercare da solo perché giova a pochi.

Poi la camera iperbarica e i suoi estimatori e detrattori. Da: “È completamente inutile” a “Può essere miracolosa”. Passando per “Non le farà male. Lei ci vada, poi vediamo”.
La mia esperienza è che il progresso c’è ed è marcato. Ma ho bisogno di molto di più e non so se potrò ottenerlo in questo modo.

Non sono stati tre anni facili. E la battuta “pensa a cosa hai superato, queste sono solo sciocchezze” ha fatto in tempo ormai a riempirmi la testa fino a uscirmi dalle orecchie. Se a un sopravvissuto a un incidente aereo, miracolosamente illeso, bastasse il fatto di avere sfiorato la morte... beh si accontenterebbe forse di restarsene lì, legato al suo sedile per tutta la vita che gli rimane?

Ho tagliato le mie cinture di sicurezza. Io e alcuni fortunati come me abbiamo lasciato quel luogo di tragedia e siamo tornati nelle nostre case. E ora vivo la mia vita aspirando alla migliore qualità possibile senza l’imbarazzo del pensiero costante che per un capello non mi trovo nell'iperspazio.

Lo devo a me stesso e alla mia famiglia.

E ora, un pensiero commosso alle anime che mi osservano... a coloro che lottano e si trovano a metà del guado... e alle figure professionali e umane che rendono tutto questo possibile…

Su il calice: tre anni di vita 2.0.







mercoledì 19 marzo 2014

Cuori d'acqua - Hearts of water


L'auto si arrestò bruscamente sotto al semaforo. La mamma di Marco era intenta a cercare l'interruttore del tergi lunotto.

Pioveva a catinelle e le spazzole anteriori facevano dondolare la macchina ad ogni passata.

Seduto sul sedile posteriore, tutto imbacuccato nella sua giacca, Marco osservava divertito i movimenti nervosi della mamma intorno allo sterzo. Quel comando non si trovava!

"Mamma, prova a girare la levetta a destra accanto al volante", suggerì infine. Aveva solo 12 anni ma era un ragazzino sveglio.

"Trovato!" esclamò finalmente la mamma con uno sbuffo.

Marco girò lo sguardo sul vetro dove le gocce d'acqua piovana scivolavano come bob su una pista da sci.

Gli piaceva osservare l'immagine distorta del mondo attraverso le bolle d'acqua che correvano.

D'un tratto nella corsia accanto si fermò un'altra auto.

La donna alla guida sembrava intenta a spiegare qualcosa di complicato e lo faceva continuando a fissare il disco rosso del semaforo davanti a lei.

Era appannato, ma si poteva scorgere al finestrino posteriore la sagoma di una ragazzina dall'aspetto annoiato, che disegnava un fiore col dito sul vetro.

Quando gli sguardi dei due giovani si incrociarono, alla ragazzina sfuggì un sorriso.

Aveva gli occhi verdi e i capelli chiari raccolti in una treccia.

Marco ebbe un moto di sorpresa quando si rese conto dopo qualche istante che lei lo stava ancora guardando.

Sorrise di rimando con un leggero imbarazzo, ma si diede un contegno e fece un timido cenno di saluto con la mano.

La ragazzina fermò il dito su un petalo del fiore incompleto e rispose al saluto.

Poi, in una zona libera del finestrino, prese a tracciare nuove linee.

Non era un disegno, sembravano piuttosto lettere dell'alfabeto. Erano stranamente insicure: Marco realizzò che la ragazzina si stava impegnando a scrivere da destra a sinistra come in un riflesso perché lui, oltre il vetro, potesse leggere.

"Lara". Ecco il suo nome: Lara.

Marco dunque si scosse e alitò sul suo cristallo, che invece era limpido, e si cimentò nella scritta riflessa, con una nota di delusione per la scarsa qualità del risultato. "Marco", scrisse, con tratto spigoloso.

Non si rese del tutto conto che aveva appena usato la mano sinistra per scrivere all'inverso sul vetro destro, pur non essendo mancino.

Lara sorrise di nuovo, più convinta, e Marco ricambiò sollevando le sopracciglia...

Il dito di Lara si mosse ancora in una nuova zona appannata. Un segno curvo, forse una mezzaluna... no, c'era una punta in basso... un cuore. Era senz'altro un cuore.

Marco sentì una vampa di calore nel petto e lasciò cadere la mascella in una espressione di totale incredulità.

Lara scoppiò a ridere... Mentre puntava il dito umido nella direzione del naso di Marco.

Lui si riprese a stento dall'emozione e, sempre con la mano sinistra, disegnò sul proprio finestrino il più bel cuore di sempre. Preciso e ben proporzionato, simmetrico e rotondo.

Lara piegò la testa di lato socchiudendo gli occhi. A Marco quel gesto parve di una bellezza infinita. Tutto era silenzio e quiete, anche la pioggia sembrava non voler disturbare...

Ora Marco avvertiva solo quell'intenso fluido caldo che emanava dal cuore e gli risaliva la gola fino a inondargli le guance e le orecchie...

Un sussulto e le due auto si mossero insieme. Quella di Lara svoltò allontanandosi. Marco ebbe appena il tempo di vedere la testolina della ragazza che si girava cercando invano l'ultimo sguardo e poi perse per sempre il contatto.

Tornò con gli occhi sul cuore che aveva disegnato sul finestrino. Alcune gocce stavano colando giù come in un pianto...

Ma non era triste, Marco. Era felice per avere provato quella sensazione così intensa e nuova.

"Mamma" chiese, "che cos'è l'amore?"



mercoledì 12 marzo 2014

L'albero - The tree


Un albero scuro in controluce. L'immagine mi passa davanti così, per caso.
La riprendo e la osservo...

Un robusto tronco piegato pare sostenere a fatica la sua chioma di rami neri, ora grossi, poi sottili. Una fitta rete di nervi, come rivoli d'inchiostro di china in fuga...

Non ci sono foglie, deve essere inverno. Le radici grandi e nodose serpeggiano in superficie prima di affondare nel terreno dove si aggrappano tenaci.

Folate di vento disegnano onde sul mare di erba esausta che circonda l'albero immobile.

Il cielo blu è al tramonto. Più su, dove è già sera, si scorgono le prime stelle.

E una riga biancastra di nuvola interseca la trama dei rami, come una antica ferita malcelata.

L'orizzonte è ben marcato e sembra voler tagliare a metà quel tronco ritorto dal vento sempre nello stesso verso.

Nell'esiguità degli elementi, l'albero si staglia nettamente, unico soggetto incolore ma vivo in un mondo freddo e avverso che si avvia alle tenebre.

Lui reggerà il peso di ogni fronda impegnando i rami via via più grossi e robusti, fino a quel fusto piegato che non vuole saperne di spezzarsi.

Reggerà per una notte ancora, aspettando testardo e muto che giunga l'alba e più in là la primavera, quando la vita si risveglia e il Creato fa di nuovo pace con Dio.



domenica 9 marzo 2014

A mezzanotte - Midnight


Esco e respiro il freddo della notte.
Il buio e il silenzio mi invadono gli occhi e le orecchie.
È notte fonda, il tempo avanza.
L’oggi è ieri, il domani oggi…

Un puntino di luce scorre tremando nel cielo scuro.
A che distanza sono dal mio mondo?
Vi farò mai ritorno?
Giro sui miei piedi aprendo le braccia.

Sto qui, in equilibrio sulla punta della vita...
A mezzanotte e a metà del mio tempo.
Guardo indietro, poi avanti.
Cos’è stato ieri? Che sarà domani?



domenica 16 febbraio 2014

La salita - The climb


Davanti a quella parete di terra bruna il fuoristrada si arrestò.

Veniva da una corsa sfrenata dove la pista battuta offriva curve mozzafiato.
Ma ora c'era quella salita verticale così impegnativa.

Il motore borbottava al minimo mentre gli stop faticavano a brillare nella nube di polvere che si contorceva dietro le ruote posteriori.

Un breve sussulto fu il segno dell'innesto della marcia ridotta.

Poco dopo i cilindri presero a girare vorticosamente e un ruggito potente si levò dal cofano.

Con uno scatto violento riprese il movimento. Rapido e convinto.

Le gomme tacchettate artigliarono la pista di terra asciutta mentre il mezzo si inclinava pericolosamente all'indietro fino a una innaturale pendenza quasi verticale.

Lo snorkel della marmitta accanto al parabrezza era spalancato e lasciava uscire un denso fumo nero, mentre l'urlo del motore sotto sforzo si spandeva per chilometri.

Zolle di terra e ciottoli schizzavano via sotto le ruote che facevano rapidi mezzi giri a vuoto quando perdevano il grip.

L'acqua del radiatore raggiunse la temperatura del vapore e due minacciosi baffi di fumo chiaro apparvero sulla cima della griglia di raffreddamento anteriore.

La prima metà della salita era andata ma non era scontato che sarebbe andata bene fino in fondo.

La pendenza, se possibile, aumentò e il pericolo di un rovinoso ribaltamento all'indietro divenne dannatamente serio.

Poi il movimento si arrestò. Le ruote girarono a vuoto per secondi e l'auto prese a traslare su un fianco poi accennò una rotazione che, se completata, non avrebbe dato alternative al rotolamento su un lato fino al fondo della salita.

Ma con abili correzioni delle ruote sterzanti la linea retta fu in breve recuperata.

I denti degli pneumatici unghiarono ancora trovando una rete di radici d'albero a cui si aggrapparono disperatamente e il fuoristrada riprese a issare il proprio peso metallico verso la vetta che ormai appariva vicina: un orizzonte di terra sotto un cielo limpido e azzurro.

Ancora qualche metro di faticosa arrampicata con il motore che frullava a strappi e la prima gomma passò finalmente il culmine della salita, poi subito la seconda.

Con un balzo felino il mezzo ruotò a mezz'aria e si ritrovò di nuovo orizzontale su una nuova pianura.

I giri si abbassarono ma il motore restò acceso per far circolare il raffreddamento mentre altro vapore continuava ad uscire sibilando dal tappo del radiatore.

Le ultime brecce rotolavano giù per quella parete sterrata formando sbuffi di polvere...

Era fatta. Il borbottio irregolare dei giri al minimo assomigliava ora a una specie di risata sommessa. Un moto di auto compiacimento per l'impresa compiuta.

Poteva sembrare impossibile. E in qualche istante apparve tutto inutile, ma il coraggio e la tenacia la ebbero vinta su tutto.




martedì 11 febbraio 2014

Un giro - A round


Bella stanza, forse un po’ piccola.
Sistemo le mie cose, non sono tante.
Avvicino il tavolino, regolo la luce.

Chiamo gli amici, mi salutano.
Ecco la cena, beh insomma…
Accendo la tv, c’è poco da vedere.

È sera, fuori è buio.
Passano a trovarmi… bello.
Sono stanco, dormo.

È già mattino… prelievi, visite.
Ecco la sacca… la chemio.
Sto bene, per ora.

Penso ad altro, ma a cosa?
L'infusione scende... e io pure.
C’è un capello sul cuscino.

Chiudo gli occhi, dormo.
Li riapro, non dormivo.
È finita la chemio.

Cena, ecco il vassoio.
Non ho fame, magari dopo.
Sento un nodo allo stomaco.

Guardo fuori è già buio.
C’è silenzio, il cuore batte.
Il motore rallenta...

Sono magro e senza capelli.
Ho la pelle grigia.
Fatico a muovermi.

Immobile.
Muto.
Sto.

Io...

...

Alba.
Luce.
Occhi.

Muovo un dito.
Chiudo il pugno.
Mi giro sul fianco.

Fuori è giorno, c’è il sole.
Scosto le lenzuola, lentamente.
Stendo gambe e braccia, sono sveglio.

Non ho fame, ma dovrei...
Provo un biscotto... poi lascio.
Il battito accelera, lo sento.

Faccio leva a mi alzo seduto.
Mi reggo con le braccia.
La testa mi pesa.

Osservo le mie gambe sottili.
Io sono ancora qui.
Lotto e non mollo.

Non immaginavo tanta forza, lo ammetto..
Ricordo bene il mio stato.
Ma ora è passato.

Tornano a trovarmi… bello.
La cena? Non ancora...
Accendo la tv… spengo.

È notte, dormo.
Cado, anzi precipito… era un sogno.
Di nuovo sveglio… è l’alba.

Oggi ce la faccio: mi alzo.
Mi trascino allo specchio.
Mi riconosco appena.

Passano col tè, forse lo reggo. Provo...
Recupero il telefono, saluto gli amici.
Rieccomi mondo: sono ancora qui.

Il pranzo, oggi sì.
Alzo il letto, adesso sto seduto.
Faccio un respiro profondo.

Non è finita, no.
Ma un passo l’ho fatto.
Ora, un altro!