mercoledì 23 gennaio 2013

Il primo volo - The first flight


Tutto ora è silenzio e quiete.
E tu dormi ma non respiri.
L'amore della tua vita è accanto a te.
Ti bacia e ti sussurra un saluto.

L'aria ti muove e ti eleva.
Una nuova luce ti investe.
Gli occhi rivivono.
Ali candide si schiudono.

Un battito e già voli.
Un altro e ancora sali.
Noi giù e tu su.
Addio amica mia.



lunedì 14 gennaio 2013

Il balzo - The leap


Il sole tramontava. Ero sul marciapiede del binario numero 2 della stazione di Modena. Scambiavo alcune parole con i miei genitori aspettando il treno.
A pochi passi da noi il mio amico Paolo chiacchierava con i suoi.

Avevamo capelli cortissimi. Per un osservatore occasionale eravamo soldati in licenza di ritorno in caserma. Eravamo invece allievi scelti del 130° Corso Allievi Ufficiali di Complemento (AUC), della Scuola Trasporti e Materiali della città militare della Cecchignola di Roma, in trasferta a Piacenza, alla Caserma Lusignani presso il CE.S.A.E. (CEntro Specialisti Armamento Esercito), per un corso di approfondimento di artiglieria.

La breve distanza fra Piacenza e la nostra città consentiva a noi modenesi di fare la cosiddetta “fuga” all’uscita tardo pomeridiana dalla caserma, intorno alle 18, per raggiungere le nostre famiglie e poi rientrare non oltre la ritirata, alle 22.

Era una corsa a ostacoli, ma eravamo ben felici di farla, anche spesso, solo per trascorrere almeno un’ora con le nostre famiglie.

... era la fine di maggio 1988, avevamo 19 anni. Il corso a Roma durava cinque mesi ed era incredibilmente impegnativo. Noi ce la mettevamo tutta ed eravamo ormai alla fine del terzo mese. Ci accompagnavano a Piacenza il Tenente Salvatore Spinosa e il Tenente Guido Manfron. Spinosa era un ufficiale preciso, corretto e dai modi gentili. Manfron, invece, era estremamente severo, eccessivamente puntiglioso e costantemente incazzato.

Disciplina, puntualità, precisione, pulizia. Questi erano i principali insegnamenti della nostra scuola. Sempre al massimo, senza mai risparmiarsi. L’applicazione ossessiva di questi precetti condizionava qualsiasi nostra azione, dalla sveglia alle 6.30 al silenzio alle 23.30.

Prima di partire alla volta di Piacenza, al nostro piccolo distaccamento fu ribadita tutta la lista delle raccomandazioni sul rispetto degli orari e sulle norme di comportamento in quanto ospiti di un’altra caserma. Per responsabilizzarci ulteriormente aggiunsero che l’inosservanza di queste raccomandazioni sarebbe stata punita severamente. E che il mancato rispetto delle regole, con particolare riferimento a un eventuale ritardo nel rientro serale, avrebbe comportato l’immediata espulsione dal corso AUC.

... e con queste premesse eravamo lì, sul marciapiede del binario numero 2 della stazione di Modena, scambiando le ultime frettolose parole con i nostri genitori, in attesa del treno per Piacenza.

Gli altoparlanti fra le corsie farfugliarono qualcosa e qualche istante dopo un lungo treno si fermò accanto a noi.

Salutammo i nostri genitori, aprimmo lo sportello del vagone e pochi istanti dopo ci trovammo seduti sui sedili in attesa della partenza. Entrambi portavamo con noi un piccolo sacchetto con alcuni ricambi di vestiario.

Facemmo appena in tempo a scambiare due parole quando il treno, con un piccolo sobbalzo, si mosse.
Non mi sfuggì il fatto che la partenza del treno non fu preceduta dal fischio del capotreno, ma lì per lì non ci feci caso...

Passò qualche minuto e la porta interna della carrozza si aprì: era il controllore.

Oltre a me e al mio amico Paolo, c’erano due persone: un signore elegante sui quarant’anni che leggeva un libro e un altro poco più giovane che osservava il tardo tramonto dal finestrino.

Tutti esibimmo i nostri documenti di viaggio. Ma quando fu il turno mio e di Paolo il controllore fece una strana espressione.
Noi scambiammo un’occhiata interrogativa: i biglietti erano in regola...

“Questi biglietti sono per Piacenza.” disse il controllore.
“Sì... stiamo andando a Piacenza.” risposi io.
“Ma questo treno non ferma a Piacenza!” esclamò lui di rimando.

Seguì un lungo istante di panico silenzioso...

“... perché non ferma a Piacenza?” chiese Paolo.

E il controllore: “Perché questo treno è l’Intercity Roma Milano. Le fermate previste sono Firenze, Bologna e Milano senza soste intermedie.”

“Ma noi siamo saliti a Modena. Il treno si è fermato a Modena!” protestai incredulo.

“La fermata a Modena era una sosta tecnica, non prevista dal programma di viaggio del convoglio.” spiegò il controllore.

“Ma si è fermato sul binario 2 e allo stesso orario del treno che aspettavamo per Piacenza! Per noi era il nostro treno!” spiegò Paolo tradendo la sua ansia. “Se arriveremo fino a Milano non torneremo mai in tempo a Piacenza entro le 22... perderemo il nostro Corso di Allievi Ufficiali!”

“Sono spiacente... dovrei redigere un verbale e farvi pagare il biglietto fino a Milano” disse il controllore “... ma lascerò correre... vi chiedo però i documenti di identità perché non vi venga in mente di tirare il freno di emergenza.”

Registrò le generalità e ci lasciò proseguendo i suoi controlli.

Noi restammo senza parole. Smarriti...

Il signore distinto posò il suo libro, estrasse da una borsa un orario dei treni e prese a sfogliarlo velocemente. Nel frattempo l’altro signore distolse gli occhi dal finestrino per seguire le vicende nel vagone, decisamente più interessanti.

“Arriveremo a Milano alle 22.45. Poi c’è un treno alle 23 da Milano per Piacenza che arriverà alle 23.50”, lesse il signore elegante.

“La ringrazio per la ricerca. Al nostro arrivo a Milano avremo già perso il corso...” gli risposi io. “Se faremo correre un taxi arriveremo tardi comunque... siamo spacciati!”

I finestrini lampeggiarono. Le luci di una stazione: Reggio Emilia. I cartelli, i muri e le colonne della stazione, là fuori, sfrecciarono via velocissimi e in pochi secondi ci trovammo nuovamente nel buio della campagna emiliana.

Bisognava escogitare subito qualcosa: non potevamo buttare tre mesi di sacrifici in quel modo.

Diedi una lunga e disperata occhiata alla maniglia rossa del freno di emergenza. Sapevo che se avessi fermato il treno l’avrei pagata molto cara a cominciare dal fatto che avrei comunque perso il corso.

Il signore accanto al finestrino prese la parola: “Ma possibile che non si possa chiedere al macchinista di fare una breve sosta a Piacenza?”
“Non credo proprio che ce lo concederanno. Siamo su un treno non su un autobus con richiesta di fermata...” risposi io accennando un tirato sorriso di circostanza.

Per qualche minuto regnò un silenzio irreale. Il treno correva maledettamente forte e non sembravano esistere alternative al fatto che avremmo raggiunto Milano per poi tornare a Piacenza abbondantemente fuori tempo massimo.”

Erano altri tempi. Al giorno d’oggi probabilmente avremmo chiamato uno dei nostri colleghi in caserma a Piacenza con un telefono cellulare per avvertire del nostro ritardo e magari chiedergli di indagare sulle possibilità di farci coprire in qualche modo l’ingresso fuori orario. Ma niente di tutto ciò era possibile: i telefoni cellulari appartenevano ancora al futuro.

Altre luci, un’altra stazione: Parma. Ancora una volta cemento e cartelli guizzarono da un finestrino all’altro come se il treno stesse accelerando sempre di più. E ancora una volta in pochi secondi ci ritrovammo nel buio degli spazi aperti.

Era un maledetto incubo! Non c’era via di uscita e soprattutto non c’era tempo per pensare. Erano ormai le 21.20, presto avremmo superato la stazione di Piacenza: il punto di non ritorno!

Il signore distinto chiuse energicamente il libretto con gli orari dei treni e lo sbatté con violenza sul sedile attirando la nostra attenzione: “Io faccio questa tratta in treno da anni e so che prima della stazione di Piacenza c’è una lunga curva a destra dove il treno è costretto a rallentare. C’è una cosa che forse potete fare...”

Io non capivo dove volesse arrivare: “E se il treno rallenta ma non si ferma noi che cosa possiamo fare? Mica possiamo scendere mentre il treno...” il resto della frase non fu necessario... una nuova minuscola fiamma di speranza si era appena accesa.

“Ma come facciamo? D’accordo, il treno rallenterà, ma non si fermerà affatto!” protestò Paolo, “Ci sfracelleremo!”

“Paolo, credo che non abbiamo scelta. Se arriviamo a Milano, addio corso. Se tiriamo il freno ci denunciano e comunque perdiamo il corso... Il treno fra poco rallenterà e quella sarà la nostra occasione. Dobbiamo almeno provare. Decideremo se farlo o no solo all’ultimo secondo... Ma ora prepariamoci, non abbiamo molto tempo!”

E allora, come se tutti appartenessimo a una squadra collaudata e con un preciso piano in mente, ci alzammo in piedi e attraversammo un tratto di vagone fino a raggiungere lo sportello più vicino.

In quell’area angusta, rumorosa e instabile sostava un ragazzo dai bicipiti sviluppati che stava fumando una sigaretta. Vedendoci arrivare in gruppo e così determinati si scostò per farci passare, ma restò sorpreso quando ci vide fermarci e armeggiare con lo sportello davanti a lui.

Una sinistra vibrazione del pavimento e la nostra perdita di stabilità sulle gambe annunciarono l’inizio della frenata del treno. Ci aggrappammo ai tubi di metallo e dove ci fu possibile per non cadere.

La maniglia gialla dello sportello non voleva saperne di sbloccarsi. Lì accanto, un cartello a colori vivaci recitava, in quattro lingue diverse: “È severamente vietato aprire lo sportello prima che il treno sia fermo.”

Il ragazzo che fumava intuì una certa urgenza nei nostri affannosi tentativi di sbloccare la chiusura e senza fare domande impugnò la maniglia gialla e prese a tirare con grande impegno.

Uno scatto meccanico e lo sportello cominciò finalmente a muoversi. Una piccola pedana lentamente si sollevò svelando gli scalini per scendere dalla carrozza e contemporaneamente un turbine d’aria investì l’interno del vagone sollevando la polvere. Il frastuono delle ruote metalliche che rotolavano sui binari e lo stridore dei freni che continuavano a mordere erano assordanti. In cinque faticammo non poco a spalancare quello sportello così ben congegnato per restare chiuso ermeticamente durante la corsa del treno. Quel treno che ora prese a inclinarsi verso il lato opposto a quello con lo sportello spalancato: era l’inizio della curva che precede la stazione di Piacenza. Non c’era più tempo da perdere!

“Paolo... io scendo!” gridai nel frastuono del ferro... E facendomi largo fra quelle persone che a stento tenevano aperto il varco, discesi gli scalini con il sacchetto dei vestiti sotto il braccio sinistro, stretto forte al petto, e la mano destra ben salda intorno a una fredda maniglia accanto allo sportello. Fermo sul predellino attesi brevemente che gli occhi si abituassero all’oscurità.

Nel buio là fuori vedevo un cielo limpido e stellato e più in basso la campagna e le strade di periferia. Mi voltai verso la testa del treno e mi ritrovai controvento. Gli occhi sferzati dall’aria si inondarono di lacrime. Feci il possibile per strizzarli e mettere a fuoco la vista senza usare le mani.

Accanto ai miei piedi le ruote del treno frullavano a grande velocità, più sotto c’era la ghiaia tipica dei binari ferroviari con quei sassi sfaccettati. A distanza regolare sfrecciavano davanti a me delle pietre distanziometriche verniciate, bianche e nere, e i pali metallici della struttura elettrica di alimentazione dei binari.

Era molto difficile calcolare il momento esatto per spiccare il balzo senza urtare uno qualsiasi di quei mille ostacoli sibilanti nell’aria scura e fresca della sera.

I freni continuavano a lavorare e il treno rallentava, ma eravamo ancora velocissimi e non immaginavo per quanto tempo ancora le morse avrebbero continuato a stringere. Decisi che avrei saltato alla fine del rallentamento o comunque al termine di quella lunga curva.

Improvvisamente lo stridore cessò. I freni avevano mollato. Il treno scorreva libero, anzi ebbi subito la sensazione di una nuova accelerazione.

Non potevo attendere oltre. Guardai verso destra, in alto, all’interno del vagone: “Grazie a tutti!” gridai.
Gettai il sacchetto con i vestiti il quale sparì istantaneamente dalla mia vista... poi presi mentalmente la cadenza con cui sopraggiungevano i pali di metallo e mi lanciai nello spazio vuoto fra due di essi...

Il ricordo di ciò che seguì ancora adesso mi mette i brividi: istintivamente feci per puntare i piedi nella ghiaia e tentai di correre. Il tentativo fallì: ero troppo veloce. Cominciai a rotolare su me stesso accanto al treno. Ricordo distintamente l’immagine delle ruote di ferro nella penombra che scorrevano alla mia destra come mannaie impazzite. Io rotolavo lì accanto cercando disperatamente di non finirci sotto.

Poco dopo, la pendenza del dosso che costeggia i binari mi venne in soccorso spingendomi verso l’esterno della curva. E metro dopo metro sentii l’erba di una striscia di verde sostituirsi ai sassi sotto di me. Rallentai il mio rotolamento fino a fermarmi... mi rialzai cercando di capire se avevo qualcosa di rotto. Nulla. Così mi parve...

“Paolo!” gridai... “Presto!” ...

Vidi volare il suo sacchetto dei vestiti. E qualche istante dopo intuii che anche lui si era lanciato. Non lo vidi con i miei occhi: il treno era ancora in curva e io non potevo vedere il fianco di più di un paio di vagoni avanti.

Per alcuni secondi cercai di riprendermi. Stordito mi misi a cercare il sacchetto dei vestiti. Non appena lo recuperai l’ultimo vagone del treno sfrecciò via trascinandosi dietro il baccano e le luci. Restai al buio nel silenzio col sacchetto in mano e le orecchie che ronzavano, ignorando che fine avesse fatto... il mio amico!

Lo chiamai correndo verso di lui: “Paolo! ... Paolo!”
Lui, poco distante, rispose: “Alfonso, sono qui. Io sto bene e tu?”
Mi precipitai da lui: “Sto bene anch’io! Ce l’abbiamo fatta!”
E lui: “Sì, ce l’abbiamo fatta!”

Qualche istante dopo ci guardammo intorno: eravamo soli accanto al binario, nel buio del nulla che precedeva la stazione di Piacenza. Una recinzione di cemento delimitava l’area del traffico ferroviario. Oltre la recinzione c’era una grossa costruzione di cemento, un capannone apparentemente disabitato, con un ampio cortile deserto.

Nella quiete della sera si potevano sentire le scie del passaggio delle automobili su una strada che evidentemente scorreva dietro quella costruzione sconosciuta...

Non potevamo incamminarci lungo i binari. Era troppo pericoloso e difficilmente giustificabile agli occhi di un eventuale incaricato della stazione, che vedendoci arrivare a piedi anziché in treno avrebbe avuto certamente un sacco di domande da farci.

Decidemmo di scavalcare la recinzione per raggiungere la strada e poi cercare un mezzo di trasporto che ci riconducesse a destinazione. Erano le 21.30.

Con il cuore in gola per quello che avevamo appena compiuto attraversammo quel largo spiazzo silenzioso e tetro, raggiungendo la fine della costruzione. Ma tutto appariva tranquillo e le nostre pulsazioni cardiache lentamente andarono stabilizzandosi.

Non parlavamo. Entrambi eravamo ancora shoccati dagli eventi. Pensavamo al rischio che avevamo corso.

Girammo l’angolo del capannone senza curarci di cosa avremmo potuto trovare oltre, quando... un fascio di luce ci investì! Erano i fari accesi di una macchina in sosta che puntavano verso di noi. Non riuscivamo a vedere bene: quella luce così fastidiosa ci abbagliava.

Continuammo a camminare senza apparenti esitazioni, in silenzio, fianco a fianco, ostentando sicurezza.

Avvicinandoci all’automobile notammo una sbarra a strisce bianche e rosse e lì accanto una sagoma maschile piuttosto corpulenta che si muoveva con un’andatura ondeggiante.

Alzai lo sguardo sulla parete del capannone e scorsi la scritta: “Dogana”... Ebbi un nuovo tonfo al cuore. “Per miracolo non ci siamo ammazzati e ora finisce che ci arrestano!” pensai...

Con un filo di voce sussurrai: “Paolo, non ti fermare... adesso noi usciamo di qui come se fosse una cosa normale...”

Giunti in prossimità dell’automobile notammo che era una vettura della vigilanza notturna. La guardia, l’uomo corpulento, era intenta a controllare il portone di ingresso della dogana. Ci vide arrivare e sospese le sue attività. Girò la testa seguendo il nostro passaggio.

Come se stessimo recitando un copione preparato, quando gli fummo davanti salutammo educatamente: “Buonasera...”. Lui, con un misto di sorpresa e di noia da routine, ricambiò: “Buonasera...”

Ancora pochi passi e fummo fuori dal piazzale, sul marciapiede. Era fatta!

Camminammo... allungammo il passo... gradualmente... prima poco, poi sempre di più... fino a correre... correvamo e ridevamo... fu una liberazione... correvamo a rotta di collo senza pensare troppo alla direzione... agli incroci giravamo dove capitava... fino a quando ci imbattemmo in una fermata dell’autobus dove ci fermammo a riprendere fiato, stupiti di essere vivi e... liberi. L’avevamo scampata ancora.

Erano le 21.45. Eravamo in orario, anzi c’erano cinque minuti di attesa per la prima corsa utile. Paolo infilò una sigaretta fra le labbra ed esitò un momento prima di accenderla... mi porse il pacchetto. Diversamente da lui io non avevo mai fumato, ma decisi che il momento meritasse un’eccezione. E con le dita tremanti per quella serie di emozioni fumai allora l’unica sigaretta della mia vita...

A distanza di anni da allora, mi capita di tanto in tanto di rivivere questa avventura. Chiudo gli occhi e mi ritrovo in piedi su quel predellino, solo e consapevole di stare per correre un rischio fatale e tuttavia determinato a non tirarmi indietro. E ancora sento il freddo del metallo nelle dita strette alla maniglia accanto allo sportello, le vibrazioni del treno sotto le suole delle scarpe, l’aria che mi sferza la faccia nello stridore assordante dei freni che faticano a controllare quella corsa folle.
Fino a quando... in un istante che sembra sospeso per sempre... spicco il balzo e in un silenzio irreale mi ritrovo, ancora una volta, a braccia spalancate, a volare fra la morte e la vita.