sabato 8 agosto 2015

Accettare il male - Acceptance


Una delle violenze più forti che ricordi della mia malattia non riguardava le terapie o i loro effetti collaterali, che pure erano pesantissimi (alcuni problemi li ho tuttora a oltre quattro anni di distanza da allora).

Ero nel pieno di un periodo di super lavoro: notti in bianco, pause pranzo inesistenti, occhi che chiedevano pietà davanti al computer.
In quel marasma qualcosa si spezzò e il mio sistema immunitario andò in tilt.

Mi ritrovai in un posto sconosciuto, fatto di lenzuola bianche, di infermieri operosi con le loro mascherine verdi, di esami, prelievi… di silenzi interminabili, di penombra per le finestre abbassate e di fastidiose luci al neon.

Raramente avevo visto un ospedale da dentro, prima di allora. Giusto perché passavo a trovare qualcuno, per una mezz’ora.
Ma quella volta era diverso: nel letto c’ero io. E gli occhi dei medici durante le visite avevano un’espressione nuova: fra il distacco professionale e il contatto umano.

A me pareva di disturbare. Di occupare un posto riservato a persone gravi.
Non sapevo cosa avessi, non lo immaginavo lontanamente.
Pensavo al lavoro, alle mille cose da fare.
Pensavo a come sarei arrivato alla fine della settimana se non potevo muovermi.

Quando seppi la diagnosi fu un colpo micidiale: leucemia.

Non conoscevo la malattia, non conoscevo l’ospedale, non sapevo nulla di nulla.
Ero lì, con la febbre altissima, al punto da annebbiarmi la testa e la vista.
E continuavo a pensare a quando sarei potuto tornare in ufficio a correre dietro alle mie cose...
Come se quel pensiero fosse l’ultimo appiglio di normalità in mezzo a un gorgo di brutte notizie che mi trascinavano verso il fondo.

E la violenza più forte fu il momento in cui dovetti lasciare quell’appiglio.
Mi resi conto che non sarebbe stata una cosa breve. Che anzi sarebbe stata lunga e dolorosa.
Che il lavoro avrebbe dovuto aspettare. Che la mia vita avrebbe dovuto aspettare.
Che la mia stessa esistenza non era più una cosa scontata.

Da sano a gravemente malato.
Da vivere a sopravvivere.

Faticai molto ad accettare quel nuovo stato di cose.

La consapevolezza che c’era un altro mondo oltre a quello che conoscevo.
Fatto di dolore, di piccoli passi, di speranza, di cure, di preghiere.
Dove il tempo scorre lentissimo e hai lunghe ore per pensare.

Perché nonostante tutto la mente resta lucida e dopo avere scalpitato come un cavallo selvaggio, poi si calma e ti aiuta a convincerti che in fondo si tratta di una nuova prova, un esame difficile, un grosso ostacolo da superare.
Che sarà una fase lunga e pesante. Che avrai voglia di piangere, ma che si può piangere camminando, andando comunque avanti.

Affrontare un mostro, ancorché imprevisto, non è mai facile.
Ma dal momento in cui cambi visuale e sei nello stato mentale giusto, da quel momento puoi considerarti pronto a lottare.

Per vincere.