martedì 22 ottobre 2013

L'ascensore - The elevator


Con un tonfo sordo la grossa borsa impattò sul pavimento.

La giovane ragazza che faticosamente la stava trascinando studiò i bottoni dei pannelli sul muro quando le ante si scostarono e l'ascensore si aprì. Ne uscì una vecchietta che armeggiava con le stampelle seguita da un signore, anche egli anziano, che mostrava un gran sorriso di denti bianchi e allineati.

La ragazza si scostò ricambiando un sorriso accennato, poi sollevò il borsone e con piccoli passi entrò nella cabina dove di nuovo lo gettò sul pavimento senza troppa cura.

Schiacciò il bottone del terzo piano e attese la chiusura delle porte: gli ascensori degli ospedali funzionano con movimenti lenti...

Quando le ante iniziarono a scorrere per chiudersi, apparve dall'esterno una mano femminile che ne afferrò una: "Un momento..." fece una voce oltre la soglia. Le ante si riaprirono e apparve una ragazza, trafelata.

Non aveva capelli né sopracciglia e il viso aveva un colorito grigiastro. Indossava una tuta sportiva ma si vedeva bene che era molto magra.

Ansimava per la corsa: "Grazie. È il terzo giro che faccio. Quando si può tornare a casa, chissà perché lo si fa sempre di corsa... Io vado al terzo piano." La ragazza col borsone rispose: "Anch'io."

L'ascensore lasciò il piano terra e il sole pallido di quel mattino di primavera, iniziando la sua lenta salita verso il cuore del Centro Oncologico.

Giunto poco oltre il primo piano, improvvisamente il pavimento della cabina ebbe un sussulto e l'ascensore si fermò.

La luce interna fece qualche lampeggio fino a quando si spense definitivamente.

"Oh mio Dio, si è fermato!" esclamò la ragazza col borsone.
"Sembra proprio di sì, e non c'è nemmeno una luce di emergenza..."

Seguirono alcuni attimi di buio e silenzio...

La ragazza col borsone frugò nelle tasche e prese il telefono cellulare. La fioca luce bianca del display diede alla cabina dell'ascensore un'atmosfera spettrale... "Non c'è campo!" constatò con un gesto di stizza, dopo aver vagato per alcuni istanti nei quattro angoli della cabina come per raccogliere qualche tacca di segnale.

Poi orientò quella debole torcia improvvisata verso i bottoni dell'ascensore individuando quello con il simbolo della campana e lo premette con forza, insistentemente.

Il tono elettronico di un allarme riecheggiò negli androni a tutti i piani della struttura, anche se all'interno della cabina buia e ovattata dell'ascensore si sentiva appena.

La ragazza col borsone volle dare una rassicurazione: "Ecco, l'allarme suona. Ora verranno a liberarci."

L'altra ragazza rispose: "Stavo facendo l'ultimo giro per poi andare a casa. Il mio telefono è in macchina dove mio marito mi sta aspettando. Speriamo di liberarci in fretta, non posso avvertirlo e..."

Una voce metallica si intromise. Proveniva dal quadro dei bottoni dell'ascensore: "Abbiamo ricevuto la vostra chiamata. Stiamo intervenendo per sbloccare l'ascensore. State tutti bene?"
"Sì, ma siamo al buio" rispose la ragazza del borsone.
"Forse le batterie di emergenza sono esaurite" riprese la voce, "Quanti siete là dentro?"
"Due" rispose sempre lei. "Una di noi ha il marito che la aspetta al parcheggio."
"Non ci vorrà molto. L'ascensore è in sicurezza. Aspettate."
"Va bene ma fate presto" rispose la ragazza facendosi portavoce anche per la compagna di disavventura.

Riaccese il display del telefono puntando la luce verso il basso.
"La mia borsa è piena di vestiti. È comoda. Sediamoci qui."

Si sedettero, vicine, su quella grande borsa sportiva, appoggiando le spalle alla parete metallica della cabina.

"Io sono Chiara..." si presentò la ragazza del borsone. "Io Alessia" rispose la ragazza che era senza capelli.

"Vado su a Ematologia", spiegò Chiara, "ieri mi hanno detto che ho la Leucemia."

Alessia esitò qualche istante, poi parlò: "Mi spiace molto. Io vengo da una Leucemia acuta. Ho fatto il trapianto di midollo poco più di un mese fa e ora sto andando a casa... o almeno spero." Concluse con un sorriso tirato. Aveva un'espressione stanca e apatica, ma si sforzava di non apparire troppo provata.

Nuovamente il display del telefono si spense. "Puoi lasciarlo spento se vuoi", aggiunse Alessia...

E in quella tenebra temporanea le due ragazze presero a parlare e a confrontarsi. Curiosamente il buio eliminava molte delle comuni barriere tipiche di una conversazione fra due persone che non si conoscono.

"Come hai scoperto di avere la Leucemia?" chiese Chiara.
"Una sera cascai svenuta a terra" rispose Alessia, "non ero mai svenuta prima... in tutta la mia vita, intendo. Avevo la polmonite e non guarivo più. Quello svenimento mi parve il segnale definitivo che qualcosa davvero non stava andando per il verso giusto. E così il giorno dopo mio marito mi portò al Pronto Soccorso. Mi fecero un prelievo e mi ricoverarono d'urgenza. E tu invece?"

"Io" disse Chiara, "da diversi giorni ormai mi sento debole e a volte fatico a reggermi in piedi. Ho fatto gli esami del sangue e, visti gli esiti, stamattina sono passata al Pronto Soccorso dove mi hanno detto che ho la Leucemia e che dovevano ricoverarmi. Allora sono corsa a casa a mettere le mie cose nel borsone. Io vivo sola, non potevo fermarmi qui."

Chiara era piena di dubbi e di domande; non aveva idea di cosa sarebbe accaduto alla sua vita nei giorni a seguire: "Com'è stare in un ospedale? Io non ci sono mai stata se non per trovare un'amica che aveva fatto un incidente, due anni fa."

"All'inizio stavo male." disse Alessia, "L'infezione ai polmoni mi provocava livelli di febbre molto alti. Non capivo molto di quello che mi accadeva intorno... Poi col tempo imparai a conoscere medici e infermieri. E ti assicuro che sono persone speciali. Con alcuni di loro ho un bel rapporto di amicizia... Le terapie sono lunghe e pesanti, non te lo voglio nascondere. Però se riesci a conservare l'ottimismo puoi affrontare qualsiasi cosa."

"Vedi Alessia" riprese Chiara, "io sono una persona positiva, anche se faccio sempre casino. Vivo d'impeto e di solito ci rimetto", sorrise, "... tant'è che sono sola. Ma l'ottimismo non mi manca!"

"Sai, ti diranno spesso che con il giusto atteggiamento le medicine funzionano meglio" disse Alessia che con la mente tornava alle fasi più difficili del suo ricovero, "... e scoprirai da te quanto ciò sia vero."

L'attesa sembrava protrarsi più del previsto. Ma non era così spiacevole. Quel momento di grande confidenza serviva a entrambe le ragazze per scaricare parte della tensione accumulata. Una per l'ansia di tornarsene finalmente a casa e l'altra per l'ingresso in una fase nuova della sua vita che le era totalmente sconosciuta.

"Hai mai perso la speranza?" chiese Chiara con un velo di preoccupazione per la possibile risposta affermativa.

"Ho avuto momenti di grande difficoltà" rispose Alessia, "mi sono chiesta come avrei mai potuto superarli... Ma non ho mai pensato veramente di non farcela." La voce di Alessia si fece più dolce: "C'era Stefano, mio marito, sempre accanto a me. È stato un sostegno formidabile. Devo dire che senza di lui sarebbe stato imposs..." Alessia ebbe un'esitazione: pensò a Chiara e al fatto che fosse sola. Temette di essere inopportuna... "Chiara, scusami non volevo dire che..."

"Non preoccuparti" la interruppe lei. "Certo, avere accanto una persona cara è senz'altro di grande aiuto e conforto. Io penserò molto alla mia mamma che da tre anni è il mio angelo custode. Lei saprà proteggermi da lassù."

Quella giovane creatura faceva tenerezza per il modo in cui sapeva girare il mondo in positivo. Alessia pensò che Chiara non poteva immaginare cosa avrebbe dovuto affrontare di lì a breve, ma realizzò anche che quella sua fiducia così solida l'avrebbe aiutata molto.

Di nuovo la voce metallica del tecnico: "Ci siamo. Ora faremo scendere la cabina al piano terra e poi apriremo la porta..."

Con un nuovo sobbalzo l'ascensore iniziò a scendere.

Alessia riaccese il display del telefono. Gli occhi di Chiara brillarono e ad entrambe sfuggì uno sguardo di intesa.

Si aiutarono per rialzarsi dal borsone e attesero ancora qualche istante, poi le ante dell'ascensore finalmente si schiusero e la luce del giorno investì le due ragazze che sbatterono le palpebre proteggendo gli occhi abbagliati con una mano.

Fecero qualche timido passo per uscire dalla cabina e trovarono ad accoglierle il tecnico ascensorista e due infermiere che subito si assicurarono che le ragazze stessero bene.

Alessia chiese in prestito a Chiara il telefono cellulare.
"Stefano... sì sono io, ero bloccata nell'ascensore ma adesso il tecnico l'ha liberato... sì, sto bene... devo ancora salire. Aspettami, quando ho finito arrivo. Sì, a dopo. Ciao."

Restituì il telefono e si rivolse a lei: "Chiara. Avevo giurato a me stessa che non sarei mai più tornata in questo ospedale se non per necessità. Ma se mi permetti di essere tua amica ti verrò a trovare ogni volta che potrò."

E Chiara, con un lieve imbarazzo: "Io... ma certo!"

Sorrisero entrambe e si abbracciarono forte. E in quell'abbraccio ritrovarono la paura e il conforto, l'ansia e la serenità, il buio e la luce, il dolore e la gioia. E la voglia reciproca di rappresentare qualcosa di buono l'una per l'altra.

Fu l'inizio di una nuova grande e solida amicizia.



lunedì 9 settembre 2013

Giù - Downward


Precipito. Precipito...
Il volo è disordinato. Mi dibatto, ma non trovo appigli e cado...
Non c'è luce, non vedo nulla, oppure qualcosa mi ha accecato.
E non c'è rumore, non sento nulla, oppure qualcosa mi ha assordato.

Vado giù, in verticale.
Non so cosa ho lasciato, non so dove finirò.
Scendo a capofitto.
Sgrano gli occhi, cerco un segnale. Nulla: buio e precipizio.
Nel mio contorcermi in volo ora mi ritrovo capovolto. A faccia in giù, sempre più giù. Giù.

La sensazione che andrò a sbattere è molto forte. Immagino il mio corpo al rallentatore che, un pezzo alla volta, prende contatto col suolo. Prima il gomito, poi il polso e la spalla. E dopo, la testa, seguita dal bacino. Infine le gambe.
E il fracasso delle ossa che si rompono: un cruento crepitio che sento forte dentro di me.
Poi il sapore del sangue in bocca. E rivoli caldi che fuoriescono dal naso e dalle orecchie...
Un senso di stordimento mi avvolge la testa... le palpebre si abbassano... è l'abbandono...

Mi scuoto! E sono ancora qui e sto ancora precipitando, o almeno questo è ciò che credo...

Provo una grande solitudine. Stringo i pugni fino a farmi male, devo provare a me stesso che sono vivo, che ci sono.

E con i pugni stretti allo spasimo spalanco la bocca e comincio a gridare. Sì! Posso sentire la mia voce. E sento il dolore nelle mani straziate dai nervi contratti.

Ora sono una figura tesa e urlante che cade vertiginosamente nel buio più profondo.

O meglio: nell'oscurità... c'è forse un vago riverbero di luce, un diffuso, sfocato, flebile bagliore distante... Un leggero orizzonte poco meno che nero...

Una linea chiara si staglia da sinistra a destra. Intensa, più intensa...
Poi si allarga e si alza e un fascio di luce mi invade la vista e mi abbaglia.

Un suono noto si avvicina fino a riempirmi le orecchie. È la mia voce: sto urlando.



Ho la fronte sudata... Aspetto che gli occhi si abituino alla luce che non è poi così forte, anzi è più che altro un diffuso bagliore azzurrognolo...

L'eco della mia voce si dissolve... Mi volto tutto intorno. Sono sdraiato, il letto è quello dell'unità trapianti. C'è la luce notturna. Sono solo.

Il lenzuolo è scostato e dal mio petto escono i tubi del catetere venoso centrale che dopo un breve tratto raggiungono un trespolo sulla sinistra.

Sul trespolo ci sono pompe per infusioni, sacche e bottiglie appese capovolte e tubi colorati che si intrecciano.

Evidentemente stavo sognando. Sognavo di precipitare e non mi sorprende, visto quello che sto passando. Ma sono colpito da quanto quel sogno sembrasse reale.

Provo ancora una parte di quello sgomento e quella tremenda solitudine...

È ora di alzarsi, la vescica preme di nuovo. Che ore sono? Le tre e quaranta del mattino. Sono passati solo quaranta minuti dall'ultima volta.

Butto giù le gambe e bilanciando mi ritrovo seduto sul bordo del letto. Cerco le ciabatte sul pavimento tastando coi piedi nudi e allo stesso tempo stacco la spina dell'alimentazione delle pompe che ora funzionano a batteria.

Mi levo in piedi e con passo stanco mi trascino verso il bagno. Devo mettere i guanti di vinile... ecco qui la scatola.

Faccio in fretta, la vescica aumenta la pressione ed è tutto sempre più urgente. Ecco, prendo il contenitore graduato e finalmente mi posso liberare...

Duecento. Devo ricordarmelo: mi è già capitato di scordarmi la misura...

Sciacquone. Via i guanti. Mi lavo le mani e... eccomi: il mio viso nello specchio. Non ho capelli, gli occhi sono scuri e scavati e l'espressione è  grigia e stanca.  Le spalle sono ossute e strette. Mi chiedo se tornerò mai quello di prima...

Asciugo le mani e spingo il trespolo di nuovo accanto al letto dove ripristino l'alimentazione delle pompe.

Su un piccolo tavolino c'è un foglio con una penna. Segno la nuova quantità sotto una colonna lunghissima: 200.

Poi torno a letto sistemando i miei tubi per non piegarli.

Torno con la testa sul cuscino e, come sempre, ripeto a me stesso ad alta voce: "Ce la faccio. Ce la faccio. Ce la faccio!"

Poi chiudo gli occhi. Sono lì. Sembro un soldato sull'attenti, in attesa di chissà quale evento. Il trapianto di midollo l'ho già fatto e ora, in effetti, devo solo aspettare e sperare. Devo trascinarmi avanti nei minuti, nelle ore, nei giorni. Devo... devo...



... E crollai. Crollai in un sonno disperato e profondo. Un sonno necessario, indispensabile; pur sapendo che circa mezz'ora dopo mi sarei alzato di nuovo ripetendo tutto da capo.

Faccio questo sogno, di tanto in tanto. Partendo dal sogno nel sogno: quel volo in caduta libera, dall'ignoto verso l'ignoto.

E se devo dare un senso a tutto ciò credo che vada cercato nel fatto che la paura fa parte della vita: non è possibile escluderla. Ma che ciononostante, ci deve sempre essere il momento in cui ci si rialza e si fa ciò che va fatto. Non importa quanto si è stanchi o spaventati.

Non avere paura non è coraggio: è incoscienza.
Il coraggio è andare avanti, nonostante la paura.




lunedì 22 luglio 2013

15 metri - 15 meters


Troppe volte ormai mi sono ritrovato in fondo al pozzo per doverlo risalire.

La prima fu la peggiore. Non sapevo nemmeno di poter andare tanto a fondo per poi riemergere.

La seconda fu comunque durissima e attaccai le mie speranze al fatto che avevo già compiuto l'impresa.

Le volte seguenti furono meno difficili perché ormai conoscevo il percorso.

Ma non riesco a farci l'abitudine.
Ancora, laggiù, sento il freddo e la solitudine. E realizzo che devo contare sulle mie forze per risalire.

Per l'ironia della sorte, il mio percorso di vita ora passa attraverso un ciclo di ossigenoterapia iperbarica.
E questi nuovi "viaggi" sul fondo per poi riemergere li faccio due volte al giorno…

Alla pressione di 15 metri sotto il mare senti che ogni boccata d'ossigeno introduce nuova vita e che ogni molecola ne riceve una parte.

E con tutto quell'ossigeno in corpo non puoi che tendere verso la superficie. Più leggero, più sano, più forte.

Questo è il senso: il baratro più buio e profondo è il luogo dove il male è sconfitto e una speranza nuova ti trascina a galla.



venerdì 12 luglio 2013

Baldanza - Boldness


Era un vero grande.
La sigaretta sempre in mano.
Amava parlare di sé.
Vedeva tutto dall'alto.

Vestiva elegante.
Apprezzava la buona cucina.
Non disdegnava la griglia.
Beveva ricercato.

Aveva un'auto lussuosa.
D'estate le due ruote.
Sportivo quanto basta.
Un occhio sempre al look.

Cedeva al vizio.
I tatuaggi sui polpacci.
In ansia per la calvizie.
E ancora nuovi occhiali da sole.

D'un tratto scoprì di essere uomo.
Capì che non era d'acciaio.
Qualcosa si ruppe.
Restò attonito.

Ripensò al suo vissuto.
Alla stupidità dei suoi gesti.
Si pentì della sua idiozia.
Il suo orgoglio svanì.

"Che fare, dottore? C'è rimedio?
Penso a mio figlio; il mio bambino...
Ma che vita da cretino!
... dove ho messo l'accendino?"



mercoledì 19 giugno 2013

Chi lo dice? - Who says so?


Chi lo dice che i guerrieri non esistono?
I guerrieri sono tanti!

Chi lo dice che i guerrieri sono tutti uomini?
Ci sono molte donne guerriere.

Chi lo dice che i guerrieri si organizzano in brigate?
Esistono guerrieri solitari.

Chi lo dice che i guerrieri hanno l'armatura?
Conosco guerrieri scalzi e coperti solo dalla loro biancheria.

Chi lo dice che i guerrieri combattono all'aperto?
I migliori guerrieri lottano nel loro letto di ricovero.

Chi lo dice che i guerrieri affrontano il nemico a mani nude?
I guerrieri più forti combattono un avversario che si trova dentro di loro.



giovedì 30 maggio 2013

Disturbo narcisistico di personalità - Narcissistic personality disorder


(fonte: Wikipedia)

Il disturbo narcisistico di personalità è un disturbo della personalità il cui sintomo principale è un deficit nella capacità di provare empatia verso altri individui. Questa patologia è caratterizzata da una particolare percezione di sé del soggetto definita "Sé grandioso". Comporta un sentimento esagerato della propria importanza e idealizzazione del proprio sé - ovvero una forma di amore di sé che, dal punto di vista clinico, in realtà è fasulla - e difficoltà di coinvolgimento affettivo. La persona manifesta una forma di egoismo profondo di cui non è di solito consapevole, e le cui conseguenze sono tali da produrre nel soggetto sofferenza, disagio sociale o significative difficoltà relazionali e affettive.

La diagnosi secondo il criterio DSM IV (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali) richiede che almeno cinque dei seguenti sintomi siano presenti in modo tale da formare un pattern pervasivo, cioè che rimane tendenzialmente costante in situazioni e relazioni diverse:
  • Senso grandioso del sé ovvero senso esagerato della propria importanza
  • È occupato/a da fantasie di successo illimitato, di potere, effetto sugli altri, bellezza, o di amore ideale
  • Crede di essere "speciale" e unico/a, e di poter essere capito/a solo da persone speciali; o è eccessivamente preoccupato da ricercare vicinanza/essere associato a persone di status (in qualche ambito) molto alto
  • Desidera o richiede un'ammirazione eccessiva rispetto al normale o al suo reale valore
  • Ha un forte sentimento di propri diritti e facoltà, è irrealisticamente convinto che altri individui/situazioni debbano soddisfare le sue aspettative
  • Approfitta degli altri per raggiungere i propri scopi, e non ne prova rimorso
  • È carente di empatia: non si accorge (non riconosce) o non dà importanza a sentimenti altrui, non desidera identificarsi con i loro desideri
  • Prova spesso invidia ed è generalmente convinto che altri provino invidia per lui/lei
  • Modalità affettiva di tipo predatorio (rapporti di forza sbilanciati, con scarso impegno personale, desidera ricevere più di quello che dà, che altri siano affettivamente coinvolti più di quanto lui/lei lo sia)


venerdì 17 maggio 2013

Due anni fa - Two years ago


A distanza di due anni da quel giorno ogni dettaglio è ancora ben scolpito nei miei ricordi...

La porta si apre e appare Matteo. Riconosco i suoi occhi chiari nonostante il resto del viso sia nascosto dalla mascherina verde.
Nella stanza dell'Unità Trapianti di Midollo c'è silenzio e Matteo, per stemperare la tensione, scherza: "Guarda un po' che cosa ho qui per te!"
Con le due mani regge una grossa sacca di sangue, gonfia e tesa. Io mi sollevo sul letto dell'ospedale. Piego il cuscino dopo averlo sbattuto: è pieno dei capelli che ho perso per la chemioterapia. I miei movimenti sono incerti: sono molto magro e debole, ma so cosa sta per accadere e il pensiero mi dà un po' di energia.

So come ci si sente da paziente leucemico, ma sarei curioso di conoscere lo stato d'animo di un infermiere che si accinge a trasfondere un nuovo midollo, con tutto il carico simbolico contenuto in quel gesto…

Matteo si avvicina all'asta per le infusioni, crea un po' di spazio in mezzo alle sacche appese e vi aggiunge questo nuovo fardello rosso scuro. In quella sacca c'è mio fratello...

Seguono le domande di rito per assicurarsi che si tratti del sangue giusto, qualche secondo ancora per l'innesto del condotto e il momento giunge.
"Sto per avviare la trasfusione. Sono le ore 17.00 di martedì 17 maggio 2011… In bocca al lupo!"
La trasfusione ha inizio e procede lenta e costante... Attraverso la finestra filtra la luce arancio del sole che tramonta…

Il giorno muore, giunge la notte: passaggio inevitabile per una nuova alba.



martedì 7 maggio 2013

Perdere la vita - Losing your life


Il vero pericolo di perdere la vita non si corre in ospedale.
In ospedale se possibile la vita te la restituiscono.

È qui fuori invece che si rischia di perderla la vita.
La vita scorre e tu se non la vivi la perdi.




giovedì 18 aprile 2013

Una casa nuova - A new house


Giro la maniglia e la porta si apre. La stanza sembra vuota. Una pianta di ficus con le foglie lucide mi accoglie, immobile.
Mi siedo su una poltroncina scura davanti a un basso tavolino di cristallo su cui vi sono alcune riviste dagli angoli sgualciti.
Dietro le tende chiare a liste verticali un sole primaverile bisticcia con uno strato di nuvole alternando luce e ombra. Il silenzio è scandito dal leggero ticchettio dell'orologio sulla parete: le 9.15.
Sulla porta dello studio c'è una targhetta: Elisa Levi - Psicologa.
È una brava dottoressa, Elisa. La apprezzo molto per i sui modi semplici ma efficaci di andare diretta al punto.

Uno scatto improvviso: la porta di ingresso gira e appare Elisa, trafelata, con una pesante borsa professionale in mano mentre parla con il telefono cellulare incastrato nell'incavo della spalla: "Pronto? Sì, sono arrivata in questo momento…"
Con un sorriso e un'occhiata mi saluta, e facendo cenno con l'indice sollevato scompare oltre la porta del suo studio.

Cala il silenzio, sono di nuovo solo…
Riemerge il ticchettio dell'orologio: le 9.20.

Poi, un tono elettronico lacera quella quiete temporanea: il citofono.
Dalla porta dello studio nessun movimento: Elisa dev'essere ancora al telefono…
Il citofono suona di nuovo. Mi alzo e mi avvicino all'apparecchio.

È un videocitofono: nel piccolo schermo l'immagine di un ragazzo con gli occhiali sembra fissarmi dritto negli occhi.
Un attimo di esitazione e sollevo il ricevitore... La voce del ragazzo: "Elisa, sono Luca. Scusa il ritardo: sono caduto col motorino..." Schiaccio subito il pulsante di apertura e ripongo la cornetta.
Con una certa ansia spalanco la porta di ingresso e attendo l'approssimarsi dei passi sulle scale...

Poco dopo, oltre il pianerottolo, emerge la sagoma in controluce del ragazzo con un casco infilato al braccio. Zoppica leggermente e si massaggia il gomito mentre, con lo sguardo abbassato, scruta le proprie gambe cercando forse un possibile strappo alla stoffa dei pantaloni…

"Ho risposto io al citofono, Elisa è impegnata al telefono. Va tutto bene?" gli chiedo dalla soglia della porta.
Lui alza gli occhi e, dopo una breve interdizione per avere colto una voce inattesa, risponde: "Credo di sì... mi fanno un po' male il ginocchio e il gomito ma sto bene..."

Lo aiuto a muoversi, appoggio il casco sul tavolino e gli faccio cenno in direzione di una delle poltroncine. Lui si siede, scarica la tensione con un respiro profondo e si prende una breve pausa…
Per fortuna sembra non essersi fatto nulla di serio.

Poi si ridesta: "Avevo un appuntamento alle 9.15, che ore sono?"
"Sono… le 9.25. Strano: avevo un appuntamento alle 9.15 anch'io" gli rispondo, "Elisa si sarà sbagliata?"

"Non saprei... Io sono qui perché fatico a dormire" riprende Luca, "E tu?"
"In un certo senso anch'io."
Non so perché non gli accenno della mia malattia, di solito non ho problemi a parlarne. Forse temo di innescare una di quelle assurde conversazioni dove vince chi sta peggio...

"Sai" continua lui, "Il terremoto…"
"Ah, certo. Ti capisco."
… sì, il terremoto.
Qui in Emilia lo scorso terremoto è stato un evento terribile e psicologicamente devastante.
Luca riprende il discorso: "… già dopo la prima scossa io non sono più riuscito ad addormentarmi serenamente. Mi ha colto nel sonno, come tanti del resto: era notte fonda."
Io annuisco e lo ascolto attentamente. I ricordi di quei terribili momenti riaffiorano come se stessero aspettando sotto il pelo dell'acqua di uno stagno addormentato… Non erano, tuttavia, i miei ricordi della scossa di terremoto. Erano bensì i ricordi della mia malattia, a cominciare dall'istante in cui la dottoressa, accostandosi al mio letto di ospedale, mi disse che avevo la leucemia.
Come un terremoto in piena notte, mi capitò quel tragico evento in "piena vita". Avevo quarantadue anni, ero sano e forte.  E quel macigno inaspettato mi investì.
Luca prosegue: "Ricordo che mentre nel buio realizzavo che si trattava davvero di un forte terremoto, una domanda mi risuonava nella testa: perché? Perché?
Ma non c'era spiegazione. Il terremoto arriva così: inatteso, senza una ragione, senza un segnale.
E quella degli animali che si agitano prima della scossa a me è sempre parsa una favola..."
Sì, ricordo anch'io quella domanda: perché? Perché mi ero ammalato di una malattia così grave? Dove potevo avere sbagliato qualcosa? Nemmeno un segnale, un dettaglio che indicasse che stavo calandomi in un pozzo così profondo? Non sapevo nulla della leucemia e quei dubbi mi straziavano.
Ancora Luca: "E poi la casa, le mie cose... Tutto si muoveva, si agitava. Mi sentivo piccolo e impotente in un mondo arrabbiato che sfogava la sua ira tutto intorno.
La mia casa, la mia sicurezza, si era trasformata in un nemico, un pericolo per la mia sopravvivenza."
Già… Accorgersi che  una parte di noi stessi ci si rivolta contro è terribile. Il corpo, la sede della mia anima, barcollava pericolosamente mettendomi in pericolo di vita. E io, là dentro, senza via di uscita dovevo cercare il muro portante e stargli accanto aspettando la fine di quell'evento devastante.
Luca fa una pausa. Ora i suoi ricordi si fanno più vivi: "La casa era fortemente compromessa. Abbiamo dovuto abbatterla fino alle fondamenta. Quel periodo fu molto difficile: non riuscivo a restare lucido davanti alla prospettiva di distruggere tutto, anche quel poco che sembrava essersi salvato."
Nel periodo pre trapianto, durante la fase di preparazione, si provoca l'aplasia midollare. Chemio e radioterapia distruggono gli elementi che costituiscono il midollo malato e così si creano i presupposti per insediarne uno nuovo, per la ricostruzione ematologica.
In quel periodo così grave le mie condizioni fisiche crollavano per le cure. Era l'abbattimento della mia casa per poterla poi ricostruire su fondamenta nuove.
Durante il suo racconto Luca vaga con lo sguardo tutto intorno, come davanti a un film invisibile. Gesticola plasmando l'aria per dare una forma ai suoi ricordi. Ora serra i pugni: "La notte era sempre brutta. Chiudere gli occhi sperando che non arrivasse un'altra scossa era impossibile. Poi la stanchezza prendeva il sopravvento."
La stanza dell'UTM, l'Unità Trapianti di Midollo, è piccola e raccolta. Il silenzio è scandito dal rumore meccanico delle pompe per le infusioni. Là si è soli con se stessi e bisogna trovare la forza e il coraggio per andare avanti.
Ricordo che ogni volta prendevo lucidamente la decisione di addormentarmi. E lo facevo affidandomi consapevolmente alla speranza che mi sarei risvegliato qualche ora dopo. Non era una certezza, ma tanto doveva bastare per continuare a crederci.
Luca si sistema sulla poltroncina massaggiando il ginocchio dolorante. Il tono della sua voce si fa meno grave: "Il bello della ricostruzione è che non si è soli. Arrivarono molte persone: la protezione civile, i vigili del fuoco, parenti, amici. Anche sconosciuti volenterosi. E tutti collaboravano per perseguire uno scopo comune. Certo, la situazione restava gravissima e c'era tanto da fare, ma lo spirito era di grande solidarietà e fratellanza."
Il mio pensiero va a chi mi stava intorno in ospedale. Persone che facevano un mestiere, certo, ma che mettevano sempre qualcosa in più sul piano personale e umano. Medici e infermieri, professionisti instancabili, lavoravano fianco a fianco per lo stesso obiettivo. Ma anche i parenti e gli amici più cari; sempre presenti, sempre disponibili e discreti.
Mia moglie, come un soldato, sempre accanto a me, mi infondeva fiducia e speranza, anche quando era ben difficile sperare. Il mio compagno di stanza, con cui ho condiviso momenti buoni e meno buoni: discese e risalite.
E mio fratello. Così diverso da me, per rivelarsi poi, invece, il migliore donatore possibile. Il suo midollo ora è anche il mio…
Ancora un breve silenzio… il ragazzo si fa serio. Evidentemente un pensiero lo turba: "Quando percorro le strade e passo davanti alle case, alcune distrutte, altre sfigurate, altre puntellate, mi si stringe un nodo in gola. Penso alle persone che ora vivono nella paura e nel disagio. Penso a coloro che hanno perso tutto. Non mi riesce di attraversare le vie del mio paese senza pensarci ogni volta. E il senso di una profonda malinconia si rinnova."
Già. Rivivere le proprie esperienze terribili, anche solo nei ricordi, mette angoscia. Quando passo davanti al Policlinico non riesco a non pensare a chi in quel momento vi si trova ricoverato o al lavoro. La sera, soprattutto, le luci accese attraverso le finestre dell'ospedale mi ricordano che c'è qualcuno là dentro, qualcuno che sta lottando contro i propri mostri. E che altre anime buone stanno facendo turni di lavoro lontani dalle proprie famiglie, dando tutta l'assistenza medica e umana di cui sono capaci…
Un grosso respiro e Luca accenna un sorriso: "Ma per fortuna le case nuove sono robuste e belle. Anche la mia.
Non posso escludere che ci saranno altri terremoti e nemmeno che questa casa non crollerà mai, ma almeno so che le cose distrutte si possono ricostruire."
Forse il senso sta tutto qui! Non si può sperare di non ammalarsi mai. Ciò che invece ci si può augurare è che esista un modo per ricostruirsi. Magari dopo avere abbattuto i resti di quanto era stato insultato dalla malattia. Magari dopo avere raggiunto il limite della sopravvivenza in condizioni fisiche estreme. Ma comunque rigenerarsi, rialzarsi, rivivere.
La porta dello studio si socchiude e il viso sorridente di Elisa fa capolino: "Scusate il ritardo: telefonata impegnativa. Vedo che avete fatto amicizia… di che parlavate?"
"Di terremoti e altri disastri" rispondo io, poi aggiungo: "Elisa, avevi fissato entrambi i nostri appuntamenti alla stessa ora, ti sei sbagliata?" e lei, con enfasi: "Non so, dillo tu. Mi sono sbagliata?"
Realizzo che forse… Luca non era lì per caso. Sorrido…

Le parole di Luca mi avevano riaccompagnato dall'inizio alla fine della mia difficile esperienza. Il parallelo fra malattia e terremoto era incredibilmente pertinente: avevo rivissuto passo passo il mio percorso nel suo racconto, seppure apparentemente così differente…

E ora una immagine mi appare, lampante.

La mia nuova vita è la mia nuova casa.
La mia nuova casa è la mia nuova vita.



giovedì 21 marzo 2013

In fila alle Poste - Standing in line at the post office



Con mia moglie all'ufficio postale.
Prendo il numero per il mio turno in fila e mi siedo in attesa.

Mi guardo attorno: gli uffici postali sono cambiati. Anni fa erano luoghi tristi, illuminati con luci al neon. La fila si faceva in piedi, con i bollettini da pagare in mano. E quelle attese così lunghe… per i pensionati era un modo per ritrovarsi e socializzare.
Per i bambini invece era una noia: le mamme li tenevano per mano e loro, dopo avere scambiato un breve sorriso con le persone intorno, protestavano dimenandosi per liberarsi dalla presa.
E gli impiegati… facevano un mestiere ossessivamente ripetitivo, con le stampanti che ronzavano ritmicamente e il tonfo martellante del timbro postale; sempre due colpi alla volta.
Allo sportello c'erano i vetri antirapina e si faticava a capirsi attraverso la fessura…
Lasciare l'ufficio postale era un sollievo: si riguadagnava la luce del giorno e il corso dei propri impegni…

Dove mi trovo ora è tutto diverso. Il soffitto è pulito e vi sono numerose lampade che emettono una bella luce chiara. Sono circondato da scaffali di libri in vendita. Più in là c'è anche il banco di un bazar con una signora che vende piccola cancelleria, portachiavi e pupazzetti per bambini.
C'è una gradevole musica di sottofondo e una diffusa sensazione di serenità, nonostante, essendo sabato, gli addetti stiano lavorando alacremente.
E poi questo efficiente sistema di gestione delle file, con il numero del turno da servire ben visibile sugli sportelli… io ho il mio biglietto in mano… distrattamente ci gioco un po', badando di non stropicciarlo troppo.

La mente, nelle attese, fa percorsi imprevedibili e chissà perché mi ritrovo a ripensare al mio ricovero, alla mia malattia. Forse ancora considero una fortuna insperata il poter condurre una vita normale dopo quello che ho passato. Essere in attesa in un ufficio postale equivale a disporre in piena libertà del proprio tempo, al punto di poterlo addirittura sprecare impunemente aspettando il turno in fila.
Il contrasto con il ricordo di quando invece mi aggrappavo alla vita minuto dopo minuto è forte e mi fa riflettere...
Assorto in questi pensieri faccio appena caso a mia moglie che all'orecchio mi sussurra: "Guarda, c'è il Professore."

Mi volto e scorgo, alle mie spalle, un soprabito. Più su una barba scura… sì è Luppi, il Professor Luppi, Direttore di Ematologia.
Mi alzo, porgo la mano: "Professore, buongiorno… sono… beh, sono un suo paziente" e lui, senza battere ciglio: "Certo, mi ricordo. Buongiorno, come sta?" Ecco… sull'onda emotiva dei miei pensieri risponderei: "Sto talmente bene che faccio la fila in posta!" Ma temo che mi prenderebbe per matto, quindi ripiego su una risposta meno originale: "Sto bene, grazie a lei!"
Poi, nell'arco di un istante, un breve scambio di sguardi che sottendono parole…

- Ecco… il tuo stato di salute è il risultato del nostro lavoro di medici e infermieri, ma soprattutto del tuo impegno…
- So di avercela messa tutta, ma tu hai certamente realizzato e condotto una squadra eccellente di persone motivate e volenterose, senza le quali non avrei mai potuto giungere a tanto.

- Non sempre le cose vanno per il meglio, ma tu sembri avere preso la strada giusta...
- Sai, ora vivo le giornate come fossero un dono. Un pacchetto che apro la mattina per arrivare alla sera. E non dirò mai più che sono sfortunato…

Ci salutiamo: "Mi ha fatto piacere rivederla." "Il piacere è mio, Professore."

… sorrido distrattamente ripensando a quando, al mattino, durante il giro delle visite, si formava il consueto capannello di medici intorno al Professore proprio davanti al mio letto. Sussurravano fra loro a bassa voce.
Io tendevo l'orecchio ma non mi riusciva di catturare il senso dei loro discorsi. Poi, uno prendeva la parola e, in termini comprensibili, mi descriveva la situazione e le cure previste.
Alla fine, dopo il saluto, un ultimo scambio di sguardi...

- Ce la farai…
- Ce la farò!



lunedì 18 febbraio 2013

Il gesto - The gesture


È il momento, ora basta!
Compromessi, storie… basta!
Troppo tempo s'è taciuto.
Troppe cose soffocato.

Ora si cambia veramente.
E non ci importa della gente.
Il mio braccio che ti stringe.
Il tuo braccio che mi cinge.

I nostri passi paralleli
Si allungano sospinti.
I nostri esili pensieri
Si son fatti più convinti.

Non è tardi, anzi è presto.
Si riparte, non è finita.
Una vita per un gesto.
Il nostro gesto per la vita.



mercoledì 23 gennaio 2013

Il primo volo - The first flight


Tutto ora è silenzio e quiete.
E tu dormi ma non respiri.
L'amore della tua vita è accanto a te.
Ti bacia e ti sussurra un saluto.

L'aria ti muove e ti eleva.
Una nuova luce ti investe.
Gli occhi rivivono.
Ali candide si schiudono.

Un battito e già voli.
Un altro e ancora sali.
Noi giù e tu su.
Addio amica mia.



lunedì 14 gennaio 2013

Il balzo - The leap


Il sole tramontava. Ero sul marciapiede del binario numero 2 della stazione di Modena. Scambiavo alcune parole con i miei genitori aspettando il treno.
A pochi passi da noi il mio amico Paolo chiacchierava con i suoi.

Avevamo capelli cortissimi. Per un osservatore occasionale eravamo soldati in licenza di ritorno in caserma. Eravamo invece allievi scelti del 130° Corso Allievi Ufficiali di Complemento (AUC), della Scuola Trasporti e Materiali della città militare della Cecchignola di Roma, in trasferta a Piacenza, alla Caserma Lusignani presso il CE.S.A.E. (CEntro Specialisti Armamento Esercito), per un corso di approfondimento di artiglieria.

La breve distanza fra Piacenza e la nostra città consentiva a noi modenesi di fare la cosiddetta “fuga” all’uscita tardo pomeridiana dalla caserma, intorno alle 18, per raggiungere le nostre famiglie e poi rientrare non oltre la ritirata, alle 22.

Era una corsa a ostacoli, ma eravamo ben felici di farla, anche spesso, solo per trascorrere almeno un’ora con le nostre famiglie.

... era la fine di maggio 1988, avevamo 19 anni. Il corso a Roma durava cinque mesi ed era incredibilmente impegnativo. Noi ce la mettevamo tutta ed eravamo ormai alla fine del terzo mese. Ci accompagnavano a Piacenza il Tenente Salvatore Spinosa e il Tenente Guido Manfron. Spinosa era un ufficiale preciso, corretto e dai modi gentili. Manfron, invece, era estremamente severo, eccessivamente puntiglioso e costantemente incazzato.

Disciplina, puntualità, precisione, pulizia. Questi erano i principali insegnamenti della nostra scuola. Sempre al massimo, senza mai risparmiarsi. L’applicazione ossessiva di questi precetti condizionava qualsiasi nostra azione, dalla sveglia alle 6.30 al silenzio alle 23.30.

Prima di partire alla volta di Piacenza, al nostro piccolo distaccamento fu ribadita tutta la lista delle raccomandazioni sul rispetto degli orari e sulle norme di comportamento in quanto ospiti di un’altra caserma. Per responsabilizzarci ulteriormente aggiunsero che l’inosservanza di queste raccomandazioni sarebbe stata punita severamente. E che il mancato rispetto delle regole, con particolare riferimento a un eventuale ritardo nel rientro serale, avrebbe comportato l’immediata espulsione dal corso AUC.

... e con queste premesse eravamo lì, sul marciapiede del binario numero 2 della stazione di Modena, scambiando le ultime frettolose parole con i nostri genitori, in attesa del treno per Piacenza.

Gli altoparlanti fra le corsie farfugliarono qualcosa e qualche istante dopo un lungo treno si fermò accanto a noi.

Salutammo i nostri genitori, aprimmo lo sportello del vagone e pochi istanti dopo ci trovammo seduti sui sedili in attesa della partenza. Entrambi portavamo con noi un piccolo sacchetto con alcuni ricambi di vestiario.

Facemmo appena in tempo a scambiare due parole quando il treno, con un piccolo sobbalzo, si mosse.
Non mi sfuggì il fatto che la partenza del treno non fu preceduta dal fischio del capotreno, ma lì per lì non ci feci caso...

Passò qualche minuto e la porta interna della carrozza si aprì: era il controllore.

Oltre a me e al mio amico Paolo, c’erano due persone: un signore elegante sui quarant’anni che leggeva un libro e un altro poco più giovane che osservava il tardo tramonto dal finestrino.

Tutti esibimmo i nostri documenti di viaggio. Ma quando fu il turno mio e di Paolo il controllore fece una strana espressione.
Noi scambiammo un’occhiata interrogativa: i biglietti erano in regola...

“Questi biglietti sono per Piacenza.” disse il controllore.
“Sì... stiamo andando a Piacenza.” risposi io.
“Ma questo treno non ferma a Piacenza!” esclamò lui di rimando.

Seguì un lungo istante di panico silenzioso...

“... perché non ferma a Piacenza?” chiese Paolo.

E il controllore: “Perché questo treno è l’Intercity Roma Milano. Le fermate previste sono Firenze, Bologna e Milano senza soste intermedie.”

“Ma noi siamo saliti a Modena. Il treno si è fermato a Modena!” protestai incredulo.

“La fermata a Modena era una sosta tecnica, non prevista dal programma di viaggio del convoglio.” spiegò il controllore.

“Ma si è fermato sul binario 2 e allo stesso orario del treno che aspettavamo per Piacenza! Per noi era il nostro treno!” spiegò Paolo tradendo la sua ansia. “Se arriveremo fino a Milano non torneremo mai in tempo a Piacenza entro le 22... perderemo il nostro Corso di Allievi Ufficiali!”

“Sono spiacente... dovrei redigere un verbale e farvi pagare il biglietto fino a Milano” disse il controllore “... ma lascerò correre... vi chiedo però i documenti di identità perché non vi venga in mente di tirare il freno di emergenza.”

Registrò le generalità e ci lasciò proseguendo i suoi controlli.

Noi restammo senza parole. Smarriti...

Il signore distinto posò il suo libro, estrasse da una borsa un orario dei treni e prese a sfogliarlo velocemente. Nel frattempo l’altro signore distolse gli occhi dal finestrino per seguire le vicende nel vagone, decisamente più interessanti.

“Arriveremo a Milano alle 22.45. Poi c’è un treno alle 23 da Milano per Piacenza che arriverà alle 23.50”, lesse il signore elegante.

“La ringrazio per la ricerca. Al nostro arrivo a Milano avremo già perso il corso...” gli risposi io. “Se faremo correre un taxi arriveremo tardi comunque... siamo spacciati!”

I finestrini lampeggiarono. Le luci di una stazione: Reggio Emilia. I cartelli, i muri e le colonne della stazione, là fuori, sfrecciarono via velocissimi e in pochi secondi ci trovammo nuovamente nel buio della campagna emiliana.

Bisognava escogitare subito qualcosa: non potevamo buttare tre mesi di sacrifici in quel modo.

Diedi una lunga e disperata occhiata alla maniglia rossa del freno di emergenza. Sapevo che se avessi fermato il treno l’avrei pagata molto cara a cominciare dal fatto che avrei comunque perso il corso.

Il signore accanto al finestrino prese la parola: “Ma possibile che non si possa chiedere al macchinista di fare una breve sosta a Piacenza?”
“Non credo proprio che ce lo concederanno. Siamo su un treno non su un autobus con richiesta di fermata...” risposi io accennando un tirato sorriso di circostanza.

Per qualche minuto regnò un silenzio irreale. Il treno correva maledettamente forte e non sembravano esistere alternative al fatto che avremmo raggiunto Milano per poi tornare a Piacenza abbondantemente fuori tempo massimo.”

Erano altri tempi. Al giorno d’oggi probabilmente avremmo chiamato uno dei nostri colleghi in caserma a Piacenza con un telefono cellulare per avvertire del nostro ritardo e magari chiedergli di indagare sulle possibilità di farci coprire in qualche modo l’ingresso fuori orario. Ma niente di tutto ciò era possibile: i telefoni cellulari appartenevano ancora al futuro.

Altre luci, un’altra stazione: Parma. Ancora una volta cemento e cartelli guizzarono da un finestrino all’altro come se il treno stesse accelerando sempre di più. E ancora una volta in pochi secondi ci ritrovammo nel buio degli spazi aperti.

Era un maledetto incubo! Non c’era via di uscita e soprattutto non c’era tempo per pensare. Erano ormai le 21.20, presto avremmo superato la stazione di Piacenza: il punto di non ritorno!

Il signore distinto chiuse energicamente il libretto con gli orari dei treni e lo sbatté con violenza sul sedile attirando la nostra attenzione: “Io faccio questa tratta in treno da anni e so che prima della stazione di Piacenza c’è una lunga curva a destra dove il treno è costretto a rallentare. C’è una cosa che forse potete fare...”

Io non capivo dove volesse arrivare: “E se il treno rallenta ma non si ferma noi che cosa possiamo fare? Mica possiamo scendere mentre il treno...” il resto della frase non fu necessario... una nuova minuscola fiamma di speranza si era appena accesa.

“Ma come facciamo? D’accordo, il treno rallenterà, ma non si fermerà affatto!” protestò Paolo, “Ci sfracelleremo!”

“Paolo, credo che non abbiamo scelta. Se arriviamo a Milano, addio corso. Se tiriamo il freno ci denunciano e comunque perdiamo il corso... Il treno fra poco rallenterà e quella sarà la nostra occasione. Dobbiamo almeno provare. Decideremo se farlo o no solo all’ultimo secondo... Ma ora prepariamoci, non abbiamo molto tempo!”

E allora, come se tutti appartenessimo a una squadra collaudata e con un preciso piano in mente, ci alzammo in piedi e attraversammo un tratto di vagone fino a raggiungere lo sportello più vicino.

In quell’area angusta, rumorosa e instabile sostava un ragazzo dai bicipiti sviluppati che stava fumando una sigaretta. Vedendoci arrivare in gruppo e così determinati si scostò per farci passare, ma restò sorpreso quando ci vide fermarci e armeggiare con lo sportello davanti a lui.

Una sinistra vibrazione del pavimento e la nostra perdita di stabilità sulle gambe annunciarono l’inizio della frenata del treno. Ci aggrappammo ai tubi di metallo e dove ci fu possibile per non cadere.

La maniglia gialla dello sportello non voleva saperne di sbloccarsi. Lì accanto, un cartello a colori vivaci recitava, in quattro lingue diverse: “È severamente vietato aprire lo sportello prima che il treno sia fermo.”

Il ragazzo che fumava intuì una certa urgenza nei nostri affannosi tentativi di sbloccare la chiusura e senza fare domande impugnò la maniglia gialla e prese a tirare con grande impegno.

Uno scatto meccanico e lo sportello cominciò finalmente a muoversi. Una piccola pedana lentamente si sollevò svelando gli scalini per scendere dalla carrozza e contemporaneamente un turbine d’aria investì l’interno del vagone sollevando la polvere. Il frastuono delle ruote metalliche che rotolavano sui binari e lo stridore dei freni che continuavano a mordere erano assordanti. In cinque faticammo non poco a spalancare quello sportello così ben congegnato per restare chiuso ermeticamente durante la corsa del treno. Quel treno che ora prese a inclinarsi verso il lato opposto a quello con lo sportello spalancato: era l’inizio della curva che precede la stazione di Piacenza. Non c’era più tempo da perdere!

“Paolo... io scendo!” gridai nel frastuono del ferro... E facendomi largo fra quelle persone che a stento tenevano aperto il varco, discesi gli scalini con il sacchetto dei vestiti sotto il braccio sinistro, stretto forte al petto, e la mano destra ben salda intorno a una fredda maniglia accanto allo sportello. Fermo sul predellino attesi brevemente che gli occhi si abituassero all’oscurità.

Nel buio là fuori vedevo un cielo limpido e stellato e più in basso la campagna e le strade di periferia. Mi voltai verso la testa del treno e mi ritrovai controvento. Gli occhi sferzati dall’aria si inondarono di lacrime. Feci il possibile per strizzarli e mettere a fuoco la vista senza usare le mani.

Accanto ai miei piedi le ruote del treno frullavano a grande velocità, più sotto c’era la ghiaia tipica dei binari ferroviari con quei sassi sfaccettati. A distanza regolare sfrecciavano davanti a me delle pietre distanziometriche verniciate, bianche e nere, e i pali metallici della struttura elettrica di alimentazione dei binari.

Era molto difficile calcolare il momento esatto per spiccare il balzo senza urtare uno qualsiasi di quei mille ostacoli sibilanti nell’aria scura e fresca della sera.

I freni continuavano a lavorare e il treno rallentava, ma eravamo ancora velocissimi e non immaginavo per quanto tempo ancora le morse avrebbero continuato a stringere. Decisi che avrei saltato alla fine del rallentamento o comunque al termine di quella lunga curva.

Improvvisamente lo stridore cessò. I freni avevano mollato. Il treno scorreva libero, anzi ebbi subito la sensazione di una nuova accelerazione.

Non potevo attendere oltre. Guardai verso destra, in alto, all’interno del vagone: “Grazie a tutti!” gridai.
Gettai il sacchetto con i vestiti il quale sparì istantaneamente dalla mia vista... poi presi mentalmente la cadenza con cui sopraggiungevano i pali di metallo e mi lanciai nello spazio vuoto fra due di essi...

Il ricordo di ciò che seguì ancora adesso mi mette i brividi: istintivamente feci per puntare i piedi nella ghiaia e tentai di correre. Il tentativo fallì: ero troppo veloce. Cominciai a rotolare su me stesso accanto al treno. Ricordo distintamente l’immagine delle ruote di ferro nella penombra che scorrevano alla mia destra come mannaie impazzite. Io rotolavo lì accanto cercando disperatamente di non finirci sotto.

Poco dopo, la pendenza del dosso che costeggia i binari mi venne in soccorso spingendomi verso l’esterno della curva. E metro dopo metro sentii l’erba di una striscia di verde sostituirsi ai sassi sotto di me. Rallentai il mio rotolamento fino a fermarmi... mi rialzai cercando di capire se avevo qualcosa di rotto. Nulla. Così mi parve...

“Paolo!” gridai... “Presto!” ...

Vidi volare il suo sacchetto dei vestiti. E qualche istante dopo intuii che anche lui si era lanciato. Non lo vidi con i miei occhi: il treno era ancora in curva e io non potevo vedere il fianco di più di un paio di vagoni avanti.

Per alcuni secondi cercai di riprendermi. Stordito mi misi a cercare il sacchetto dei vestiti. Non appena lo recuperai l’ultimo vagone del treno sfrecciò via trascinandosi dietro il baccano e le luci. Restai al buio nel silenzio col sacchetto in mano e le orecchie che ronzavano, ignorando che fine avesse fatto... il mio amico!

Lo chiamai correndo verso di lui: “Paolo! ... Paolo!”
Lui, poco distante, rispose: “Alfonso, sono qui. Io sto bene e tu?”
Mi precipitai da lui: “Sto bene anch’io! Ce l’abbiamo fatta!”
E lui: “Sì, ce l’abbiamo fatta!”

Qualche istante dopo ci guardammo intorno: eravamo soli accanto al binario, nel buio del nulla che precedeva la stazione di Piacenza. Una recinzione di cemento delimitava l’area del traffico ferroviario. Oltre la recinzione c’era una grossa costruzione di cemento, un capannone apparentemente disabitato, con un ampio cortile deserto.

Nella quiete della sera si potevano sentire le scie del passaggio delle automobili su una strada che evidentemente scorreva dietro quella costruzione sconosciuta...

Non potevamo incamminarci lungo i binari. Era troppo pericoloso e difficilmente giustificabile agli occhi di un eventuale incaricato della stazione, che vedendoci arrivare a piedi anziché in treno avrebbe avuto certamente un sacco di domande da farci.

Decidemmo di scavalcare la recinzione per raggiungere la strada e poi cercare un mezzo di trasporto che ci riconducesse a destinazione. Erano le 21.30.

Con il cuore in gola per quello che avevamo appena compiuto attraversammo quel largo spiazzo silenzioso e tetro, raggiungendo la fine della costruzione. Ma tutto appariva tranquillo e le nostre pulsazioni cardiache lentamente andarono stabilizzandosi.

Non parlavamo. Entrambi eravamo ancora shoccati dagli eventi. Pensavamo al rischio che avevamo corso.

Girammo l’angolo del capannone senza curarci di cosa avremmo potuto trovare oltre, quando... un fascio di luce ci investì! Erano i fari accesi di una macchina in sosta che puntavano verso di noi. Non riuscivamo a vedere bene: quella luce così fastidiosa ci abbagliava.

Continuammo a camminare senza apparenti esitazioni, in silenzio, fianco a fianco, ostentando sicurezza.

Avvicinandoci all’automobile notammo una sbarra a strisce bianche e rosse e lì accanto una sagoma maschile piuttosto corpulenta che si muoveva con un’andatura ondeggiante.

Alzai lo sguardo sulla parete del capannone e scorsi la scritta: “Dogana”... Ebbi un nuovo tonfo al cuore. “Per miracolo non ci siamo ammazzati e ora finisce che ci arrestano!” pensai...

Con un filo di voce sussurrai: “Paolo, non ti fermare... adesso noi usciamo di qui come se fosse una cosa normale...”

Giunti in prossimità dell’automobile notammo che era una vettura della vigilanza notturna. La guardia, l’uomo corpulento, era intenta a controllare il portone di ingresso della dogana. Ci vide arrivare e sospese le sue attività. Girò la testa seguendo il nostro passaggio.

Come se stessimo recitando un copione preparato, quando gli fummo davanti salutammo educatamente: “Buonasera...”. Lui, con un misto di sorpresa e di noia da routine, ricambiò: “Buonasera...”

Ancora pochi passi e fummo fuori dal piazzale, sul marciapiede. Era fatta!

Camminammo... allungammo il passo... gradualmente... prima poco, poi sempre di più... fino a correre... correvamo e ridevamo... fu una liberazione... correvamo a rotta di collo senza pensare troppo alla direzione... agli incroci giravamo dove capitava... fino a quando ci imbattemmo in una fermata dell’autobus dove ci fermammo a riprendere fiato, stupiti di essere vivi e... liberi. L’avevamo scampata ancora.

Erano le 21.45. Eravamo in orario, anzi c’erano cinque minuti di attesa per la prima corsa utile. Paolo infilò una sigaretta fra le labbra ed esitò un momento prima di accenderla... mi porse il pacchetto. Diversamente da lui io non avevo mai fumato, ma decisi che il momento meritasse un’eccezione. E con le dita tremanti per quella serie di emozioni fumai allora l’unica sigaretta della mia vita...

A distanza di anni da allora, mi capita di tanto in tanto di rivivere questa avventura. Chiudo gli occhi e mi ritrovo in piedi su quel predellino, solo e consapevole di stare per correre un rischio fatale e tuttavia determinato a non tirarmi indietro. E ancora sento il freddo del metallo nelle dita strette alla maniglia accanto allo sportello, le vibrazioni del treno sotto le suole delle scarpe, l’aria che mi sferza la faccia nello stridore assordante dei freni che faticano a controllare quella corsa folle.
Fino a quando... in un istante che sembra sospeso per sempre... spicco il balzo e in un silenzio irreale mi ritrovo, ancora una volta, a braccia spalancate, a volare fra la morte e la vita.