lunedì 9 settembre 2013

Giù - Downward


Precipito. Precipito...
Il volo è disordinato. Mi dibatto, ma non trovo appigli e cado...
Non c'è luce, non vedo nulla, oppure qualcosa mi ha accecato.
E non c'è rumore, non sento nulla, oppure qualcosa mi ha assordato.

Vado giù, in verticale.
Non so cosa ho lasciato, non so dove finirò.
Scendo a capofitto.
Sgrano gli occhi, cerco un segnale. Nulla: buio e precipizio.
Nel mio contorcermi in volo ora mi ritrovo capovolto. A faccia in giù, sempre più giù. Giù.

La sensazione che andrò a sbattere è molto forte. Immagino il mio corpo al rallentatore che, un pezzo alla volta, prende contatto col suolo. Prima il gomito, poi il polso e la spalla. E dopo, la testa, seguita dal bacino. Infine le gambe.
E il fracasso delle ossa che si rompono: un cruento crepitio che sento forte dentro di me.
Poi il sapore del sangue in bocca. E rivoli caldi che fuoriescono dal naso e dalle orecchie...
Un senso di stordimento mi avvolge la testa... le palpebre si abbassano... è l'abbandono...

Mi scuoto! E sono ancora qui e sto ancora precipitando, o almeno questo è ciò che credo...

Provo una grande solitudine. Stringo i pugni fino a farmi male, devo provare a me stesso che sono vivo, che ci sono.

E con i pugni stretti allo spasimo spalanco la bocca e comincio a gridare. Sì! Posso sentire la mia voce. E sento il dolore nelle mani straziate dai nervi contratti.

Ora sono una figura tesa e urlante che cade vertiginosamente nel buio più profondo.

O meglio: nell'oscurità... c'è forse un vago riverbero di luce, un diffuso, sfocato, flebile bagliore distante... Un leggero orizzonte poco meno che nero...

Una linea chiara si staglia da sinistra a destra. Intensa, più intensa...
Poi si allarga e si alza e un fascio di luce mi invade la vista e mi abbaglia.

Un suono noto si avvicina fino a riempirmi le orecchie. È la mia voce: sto urlando.



Ho la fronte sudata... Aspetto che gli occhi si abituino alla luce che non è poi così forte, anzi è più che altro un diffuso bagliore azzurrognolo...

L'eco della mia voce si dissolve... Mi volto tutto intorno. Sono sdraiato, il letto è quello dell'unità trapianti. C'è la luce notturna. Sono solo.

Il lenzuolo è scostato e dal mio petto escono i tubi del catetere venoso centrale che dopo un breve tratto raggiungono un trespolo sulla sinistra.

Sul trespolo ci sono pompe per infusioni, sacche e bottiglie appese capovolte e tubi colorati che si intrecciano.

Evidentemente stavo sognando. Sognavo di precipitare e non mi sorprende, visto quello che sto passando. Ma sono colpito da quanto quel sogno sembrasse reale.

Provo ancora una parte di quello sgomento e quella tremenda solitudine...

È ora di alzarsi, la vescica preme di nuovo. Che ore sono? Le tre e quaranta del mattino. Sono passati solo quaranta minuti dall'ultima volta.

Butto giù le gambe e bilanciando mi ritrovo seduto sul bordo del letto. Cerco le ciabatte sul pavimento tastando coi piedi nudi e allo stesso tempo stacco la spina dell'alimentazione delle pompe che ora funzionano a batteria.

Mi levo in piedi e con passo stanco mi trascino verso il bagno. Devo mettere i guanti di vinile... ecco qui la scatola.

Faccio in fretta, la vescica aumenta la pressione ed è tutto sempre più urgente. Ecco, prendo il contenitore graduato e finalmente mi posso liberare...

Duecento. Devo ricordarmelo: mi è già capitato di scordarmi la misura...

Sciacquone. Via i guanti. Mi lavo le mani e... eccomi: il mio viso nello specchio. Non ho capelli, gli occhi sono scuri e scavati e l'espressione è  grigia e stanca.  Le spalle sono ossute e strette. Mi chiedo se tornerò mai quello di prima...

Asciugo le mani e spingo il trespolo di nuovo accanto al letto dove ripristino l'alimentazione delle pompe.

Su un piccolo tavolino c'è un foglio con una penna. Segno la nuova quantità sotto una colonna lunghissima: 200.

Poi torno a letto sistemando i miei tubi per non piegarli.

Torno con la testa sul cuscino e, come sempre, ripeto a me stesso ad alta voce: "Ce la faccio. Ce la faccio. Ce la faccio!"

Poi chiudo gli occhi. Sono lì. Sembro un soldato sull'attenti, in attesa di chissà quale evento. Il trapianto di midollo l'ho già fatto e ora, in effetti, devo solo aspettare e sperare. Devo trascinarmi avanti nei minuti, nelle ore, nei giorni. Devo... devo...



... E crollai. Crollai in un sonno disperato e profondo. Un sonno necessario, indispensabile; pur sapendo che circa mezz'ora dopo mi sarei alzato di nuovo ripetendo tutto da capo.

Faccio questo sogno, di tanto in tanto. Partendo dal sogno nel sogno: quel volo in caduta libera, dall'ignoto verso l'ignoto.

E se devo dare un senso a tutto ciò credo che vada cercato nel fatto che la paura fa parte della vita: non è possibile escluderla. Ma che ciononostante, ci deve sempre essere il momento in cui ci si rialza e si fa ciò che va fatto. Non importa quanto si è stanchi o spaventati.

Non avere paura non è coraggio: è incoscienza.
Il coraggio è andare avanti, nonostante la paura.